lunedì 26 dicembre 2011

E'meglio se te lo aspetti

Non possiamo governare gli eventi. Ci sono giorni in cui regna la noia. Non accade nulla di rilevante. Non facciamo alcun incontro strabiliante e anzi ci imbattiamo in esseri umani già troppo visti per suscitare il nostro interesse. Figurarsi poi quando si è in cerca dell'amore. Solitamente chi si affanna nella ricerca non trova un bel nulla. Reperire un compagno decente è quasi peggio che spulciare offerte di lavoro. E allora è meglio lasciar perdere, perché cercando ci si illude e basta. Spesso si scambiano fischi per fiaschi: la disperazione ti fa accettare persone che sono ben lontane dal tuo modo di essere e di vedere. La chiamano illusione che, condita ad una buona dose di debolezza, potrebbe essere una pozione letale per ogni aspirante amante. E poi, perché affannarsi tanto? L'amore arriva quando meno te lo aspetti. Lo sostengono tutte le tue amiche in vena di consolazione, le nonne te lo ripetono da quando sei nata, e se fosse viva quella tua antenata che ti guarda di sbieco da un quadro antico perennemente impolverato, ti inviterebbe ad avere pazienza e a non perdere la speranza. Ma la pervicacia nel farsi trovare impreparata non giova affatto.
Va bene il quando meno te lo aspetti, va bene l'effetto sorpresa, va bene che l'amore è un attimo e che quando Cupido scocca una freccia dal suo arco pare non vi sia via di fuga e l'essere umano più insignificante ai nostri occhi accecati appare come un Adone, però Eros quando decide di operare potrebbe anche avvisare; non so una telefonata, un sms, un mail su fb...E'possibile che i "fidanzabili" appaiano sempre e solo nei tuoi giorni peggiori?
Quando sei scoglionata e hai indossato il maglione più brutto che hai nell'armadio, che tua madre, priva di gusto, ha acquistato in saldo alla Benetton ed così rosso che un manipolo di fascisti ti ha scambiato per una vecchia partigiana e ti ha rincorso per mezza Roma. Scampata all'eccidio, con i jeans sdruciti e gli stivali puntellati di fango, sei arrivata a lavoro già stanca, sconfitta e, soprattutto, sudata e scarmigliata. Hai provato a darti una sistemata ma i capelli, ricci per giunta, proprio non volevano saperne di obbedire. Risultato: ti sei guardata allo specchio e ti sei trovata più Piccola Fiammiferaia di prima. "Meglio non pensarci", ti sei detta e di bozzo buono, da brava stakanovista, hai preso a faticare sperando che nessuno, come sempre, si accorgesse di te, che nessuno, come al solito, ti chiedesse un consiglio, favore, piacere, informazione di qualsivoglia genere, auspicando che tutti, come di consueto, ignorassero persino il tuo nome...
"Scusi, posso disturbarla un attimo?"
Una voce decisa ha lambito le spiagge deserte del tuo padiglione auricolare e sei stata costretta a sollevare gli occhi, la bocca e il viso.
Una visione: l'uomo che hai sempre sognato è davanti a te e ti sorride.
Non è Jhonny Deep né il commissario Manara. Non si può avere tutto dalla vita, tuttavia lo sconosciuto non è certo da buttar via. Anzi.
Alto, bruno, barbuto.
Composto, serioso, affascinante.
Ti osserva in attesa di una tua cortese risposta e ti regala il suo profilo migliore. Sorride sornione.
Tu, impietrita, ti mordi le labbra, ti guardi lo smalto rosso mangiucchiato che hai sulle unghie e bestemmi in una lingua sconosciuta tutti i santi del paradiso delle shampiste da Paris Hilton a Maria De Filippi passando per Kinsella fino a Carry di Sex in The City.
Lui solleva le sopracciglia e dolcemente domanda:"Allora?".
Tu blateri qualcosa e, rossa per la vergogna, con una scusa, corri a chiamare un tuo collega.
Fine della storia.
Vedete care nonne, amiche, Bridget Jones, Elizabeth Bennet, Jane Austen, Audrey Hepburn, Louise May Alcott, Mina, Natalia Aspesi e Massimo Gramellini, è meglio che te lo aspetti,sennò quando arriva fai la figura della CESSA e quello manco ti si fila: dopo un quarto d'ora di considerazione ti volta le spalle e va a cercar fortuna altrove!

giovedì 15 dicembre 2011

Figli unici o quasi

Collaboratori. Lavoratori a progetto. Esterni che supportano il lavoro altrui. Intercambiabili. Flessibili. Mutevoli. Camaleontici. Questi siamo noi: ragazzi destinati a non avere un'identità lavorativa. Non so se è vero che il lavoro nobilita l'uomo, come recitava una vecchia formula, tuttavia penso che in qualche modo determini la sua esistenza. Soprattutto quando lo si svolge con passione. In tal caso, non è più una questione di "fare" ma appartiene alla sfera dell'"essere". E allora sì che la questione si fa seria.
Ritorniamo agli albori della nostra storia, a quando nonne e nonni ci chiedevano con sussiego: mio caro nipote cosa desideri fare da grande? Come immagini il tuo futuro? Un tempo avremmo voluto essere tutti astronauti e ballerine, oggi solo calciatori e veline. Ma comunque tutti aspiravamo ad un'identità ben definita. Voglio essere un medico, un avvocato, un falegname, una maestra. Insomma, voglio essere qualcuno, qualcosa, contribuire con la mia competenza specifica al bene comune. Mi piacerebbe edificar infrastrutture, scuole, formare coscienze e menti nuove, difendere i diritti in un tribunale o, semplicemente, trasformare l'albero in uno sgabello. Snocciolavamo frasi del genere in compiti in classe, interrogazioni e interrogatori di adulti impiccioni. E ora? Possiamo permetterci lo stesso lusso? Sfido chiunque a non cadere vittima di una vera e propria crisi d'identità durante il suo percorso lavorativo.
"La mattina scrivo un saggio di filosofia; il pomeriggio gestisco una libreria (gratis); la sera faccio il cameriere in una tavola calda da sei anni". La giornata tipo di A., un simpatico ragazzo molisano che ho conosciuto qualche tempo fa, è comune a molti. Ho salvato A. nel mio database alla voce "professore di filosofia" anche se, per la sua vis comica, avrebbe potuto calcare il palcoscenico e fare molti più spettatori di un Checco Zalone qualunque.
Il molisano è una molla. Un individuo Eta Beta, che si è adattato alle diverse situazioni come il das, e ha modellato la sua identità lavorativa in base alle necessità del momento (si deve pur mangiare!). Tuttavia A.,sotto la maschera da precario flessibile-versatile-intercambiabile-scomponibile, è rimasto un professore di filosofia, e adesso finalmente ha ottenuto una supplenza. Ma quanto durerà? Boh!E,poi,chissenefrega. L'importante è non doversi più camuffare da ciò che non si è per poter cambiare. A. non deve sottoporsi a mutazioni degli interessi, del carattere e dell'intelligenza. Non deve reprimersi e può finalmente esprimersi liberamente, nella sua scuola, davanti ai suoi alunni. Ad A. almeno per qualche tempo sarà concesso di vivere in uno stato di grazia. Potrà realizzarsi secondo le proprie capacità, tradurre in atto le sue potenzialità. Poi, forse- mi auguro di no- dovrà nuovamente "accontentarsi", camuffarsi, fingere di essere felice, recitare una parte, vestire abiti non suoi. Ma sorriderà lo stesso, falsamente con un animatore turistico davanti ad una cliente fastidiosa, perché ha bisogno di quel lavoro. A., come tanti altri, sarà costretto, ancora una volta, ad emulare il signor Cohn, un apolide, patriota di professione.
Cohn è un ebreo "profugo" di cui narra Hannah Arendt in un suo articolo del 1943, intitolato appunto "Noi Profughi". Cohn, sostiene Arendt, pur di non avere problemi e vivere serenamente nella condizione di eterno apolide, abbraccia di volta in volta la cultura del paese in cui decide di dimorare. Rinnega la sua identità. Soffoca il suo essere ebreo in bandiere diverse.
"Il signor Cohn fu un convinto patriota tedesco, poi divenne un francese e poi ancora...", scriveva la Arendt. A seconda del paese in cui si trovò a risiedere, Cohn cambiò abitudini, lingua e cultura. Non solo si adattò, ma si reinventò completamente cancellando le tracce della precedente nazionalità. Noi precari, giorno dopo giorno, dobbiamo fare la stessa cosa. Adeguare il nostro cv, i nostri titoli, le nostre competenze, e finanche le nostre aspirazioni, al mercato. Tutto ciò per ottenere un lavoro che, secondo la nostra magnifica Carta Costituzionale, ci spetterebbe di diritto. E se, apparentemente, l'equilibrismo del precario sembra che non abbia alcuna influenza sulla psiche dei "sine labor sine die", a lungo andare, invece, potrebbe logorare anche gli animi più forti, così da arrivare ad una selezione naturale. Sopravviverà chi, nonostante tutto, è riuscito a non impazzire, a non farsi travolgere dalle perenni crisi di'identità e a non perdere di vista il proprio obiettivo; chi è rimasto precario sì ma nel proprio settore, chi, nonostante le difficoltà, non ha abbandonato mai del tutto il suo vagone e con tenacia e caparbietà- il che non vuol dire che non abbia attraversato momenti bui, che non sia stato costretto ad accettare dei compromessi con se stesso e le sue reali inclinazioni-, come un vecchio asino lucano, stanco ma ostinato, ha perseverato.
E'dura ma la natura non si può mutare né occultare a lungo. Se si ha una vocazione ad essere, prima o poi, il nostro vero mestiere verrà fuori, come l'ebraismo del signor Cohn, e allora non basteranno i limiti, i paletti, gli argini mentali né i trucchi e gli abiti di scena, che negli anni ci siamo cuciti addosso per necessità, a salvarci da noi stessi. L'essere squarcerà il velo dell'apparenza, la lava incandescente della volontà si riaccenderà sotto le ceneri della tranquillità, dell'abitudine e della maturità, e noi finalmente potremo essere solo ciò che siamo e svolgere il lavoro che abbiamo sempre desiderato.
L'essere non si può fermare. Ad un certo punto esplode rovinosamente ed è difficile arginarlo. Ci dà la carica, la forza di risalire la china, e continuare a lottare nonostante la crisi, i debiti, il precariato e la disoccupazione. Non possiamo spegnere il motore della vita di ognuno: la passione.

Mi è costata così tanto la mia coerenza che oggi la trovo quasi assurda. Quando ero ciò che volevo, e il mio essere corrispondeva quasi del tutto al mio fare, mi sentivo in colpa perché il mio lavoro non era percepito come tale. Che lavoro è se viene svolto da casa, con mezzi propri e senza un'adeguata retribuzione? Si viene riconosciuti come "chi fa questo", come "il professionista tal dei tali", dal mondo circostante, dagli altri, dai colleghi, dai lettori magari, ma per la società si rimane dei collaboratori, ovvero l'ultima ruota del carro maltrattata e sottopagata. E, per i propri genitori, ci si tramuta in una scomoda voce del libro paga: un mangiapane a tradimento, un emerito parassita. Quindi, anche qualora l'essere coincida col fare, di questi tempi, si rischia di vivere male. E tu stesso ti chiedi quando ti verrà riconosciuto lo status di "lavoratore", quando smetterai di lavorare-con una balia-supervisore o o altro e diventerai finalmente un soggetto autonomo.
Un giorno forse queste mie domande troveranno una risposta, un giorno forse potremo pensare al futuro liberamente, potremo addirittura tornare a sognare e a credere che i nostri sogni possano diventare realtà senza eccessivi spargimenti di sangue. Quel giorno, però, credo sia di là da venire.

mercoledì 7 dicembre 2011

Certi incubi poi

Immaginate di stare dormendo e di sognare. A me capita molto spesso. E soprattutto in questo periodo. Essendo squinternata, i sogni non possono essere "normali". Quindi ne vengono fuori dei veri e propri fantasy, roba da fare invidia a Tolkien e Licia Troisi messi insieme. Stanotte, per esempio, ne ho partorito uno davvero assurdo. Prima cosa impossibile: io che faccio l'esame da giornalista professionista( non accadrà mai, per fortuna o purtroppo non so). Mi siedo in una stanza pressoché buia e comincio a scrivere un tema di attualità. Quando ho finito mi alzo col terrore sul volto e mi allontano dall'aula come se fosse la casa delle streghe. Dopo svariati giorni, incredula, apprendo di aver superato l'esame. Non che non possedessi l'argomento affrontato, non mi ricordo di cosa stessi scrivendo di preciso, ma sono quasi certa che si trattasse di narcos mssicani.Quindi perché dolersi? Perché struggersi, preoccuparsi, dannarsi l'anima? Eh, perché?
Una persona che supera un esame di solito dovrebbe essere lieta,io, invece, ero angosciata. Come se non bastasse, poi, nel non-luogo in cui si svolgeva il mio film notturno, ad un tratto è comparsa una pista di pattinaggio sul ghiaccio, la mia amica e collega Ines (che adesso è in Egitto dove non penso nevichi), e un cielo plumbeo. Uno scenario che non prometteva nulla di buono.
Chiacchiere e racconti, Ines mi consola, cerca di tirarmi su. Inizialmente non comprendo quale sia la causa del mio rovello. Ma poi, ecco, che mi appare una visione, una sorta di epifania molto proustiana; il direttore di un giornale, che non è il mio, mi ferma nel corso di una festa e mi dice che ha apprezzato molto il mio compito sui narcos ma devo stare attenta agli errori di ortografia. "Ce ne era qualcuno di troppo nel compito", chiosa.
Sogno o son desta?, mi sono chiesta. Eppure ho continuato a dare sfogo alle mie paranoie. "Che figura, il direttore mi stimava ed ora mi reputa un'idiota. Ma come ho potuto?Io, proprio io? Che vergogna! Cosa direbbero i miei insegnanti se lo sapessero...": la serie infinita di pippe mentali suonava più o meno così e io ci sono caduta dentro. Annaspavo disperata. Più provavo a venire fuori dai miei tomenti più ci ricadevo. Stava diventando davvero difficile uscirne, quando un trillo, un fastidioso suono ha fatto crollare l'oscura scenografia. La sveglia mi ha salvato dal mio inconscio.
Prima di andare a dormire, sarebbe opportuno farsi una bella tisana e leggere una fiaba. Per lo meno al posto degli inquietanti direttori di giornale potrebbe capitare di sognare avvenenti principi azzurri e simpatiche fatine. Anche se so che non è vero, è molto meglio una semplice illusione di una brutta realtà.

giovedì 1 dicembre 2011

Gli anni sbagliati

Ci sono periodi della nostra vita in cui ci sentiamo sospesi. Ci sembra di vivere in un non-tempo, e ci chiediamo se effettivamente quella vita ci appartiene. E'questa forse la mia vita? Chi è costui o costei che agisce, parla, si muove, cammina, servendosi del mio corpo, di me? Sono domande che alcuni non si pongono mai. Forse perché le considerano retoriche. Le risposte sono pressoché scontate. Ma non siamo tutti uguali. Purtroppo, direi. A volte sarebbe meglio evitare di interrogarsi sul senso delle cose, della propria vita, basterebbe viverla. Eppure se si arriva a porsi certi quesiti evidentemente non si è certi che la vita che si sta vivendo sia la migliore tra quelle possibili. Non lo so. Penso, però, che ognuno di noi abbia bisogno del suo non-tempo,di una sorta di bozzolo nel quale nascondersi per poter poi sbocciare e rifiorire al momento opportuno. Migliore di prima e più conforme al suo essere reale. Ognuno ha bisogno di fuggire a rifugiarsi in un non-tempo per poter poi ritornare al suo tempo consapevole di sé stesso e delle sue reali potenzialità.
I non-tempi ci aiutano ad accettare le distorsioni dei nostri tempi che avremmo voluto diversi, almeno speravamo che si avvicinassero a ciò che sognavamo da bambini quando giocavamo con le bambole o alle maestre e immaginavamo per ciascuna di noi un radioso futuro da donna in carriera. Ma non tutte le Barbie finiscono ad ancheggiare su un tacco dieci ai vertici di un'azienda (menomale) anzi, col senno di poi vale la pena rivalutare Tania, quella che Barbie non era, ma ti rassicurava perché aveva un'aria più italiana e meno irraggiungibile. A guardarla, oggi, da laureate-masterizzate-un po'sfigate, ci si sente meno fallite. E ci si augura che un giorno tutto cambierà, e le nostre figlie potranno giocare con delle bambole migliori che rispecchino quanto meno degli ideali femminili più sani e, soprattutto, non maschilisti.
Chissà come sarà la Tania del futuro, chissà come sarà l'Italia del futuro. Chissà se riusciremo a mettere al mondo dei figli, noi della generazione sbagliata, noi che siamo nati nel momento sbagliato. Ci si illudeva che nascere in concomitanza con la vittoria di un mondiale di calcio fosse una bella fortuna ma, a conti fatti, sarebbe stato meglio venire al mondo qualche anno prima, quando si andava in piazza a lanciar le bombe. Sì perché, noi bambini dell'80, cresciuti a Nesquik e Bim Bum Bam, siamo stati prima costantemente riformati e poi fregati.
La storia ha avuto inizio alle superiori: riforma degli esami di stato, introduzione dei "crediti" al liceo, e nuove prove da superare. Va bene. Ci prepariamo per tre anni, impariamo l'analisi testuale, scriviamo articoli di giornale, e rispondiamo a domande aperte sui più svariati argomenti. Ce l'abbiamo fatta. Con la maturità in tasca varchiamo la soglia dell'università e ad attenderci troviamo un'altra sorpresa che si chiama, tanto per cambiare, riforma universitaria altrimenti detta "nuovo ordinamento". Eccoci a Roma, eccomi alla Sapienza.
Pensi che qualcuno ti darà una dritta, credi che poiché sei all'interno di un grande ateneo sia tutto ben organizzato, strutturato, delineato. Ma capisci che stai inseguendo l'ennesima chimera quando il tuo tutor disperato ti domanda:"Signorina lei ha capito la riforma?". E tu, immaginando che sia un tranello, che lui voglia testare la tua preparazione, ringalluzzita, ribatti:"Beh, sì...Abbastanza". Ovvero: "Forse c'è qualche punto che non mi è molto chiaro ma in linea di massima sì, penso di averla compresa". E lui, affranto:"Beh, allora me la spieghi perché io non ci ho capito molto. Sa, ero abituato ad un altro genere di università".
E meno male che lui era il tutor! Chi ben comincia è a metà dell'opera, dicevano gli antichi. Ma quando mai? Non c'è limite al peggio!
I ministri dell'istruzione sono cambiati, le loro idee sull'università pure, e anche i tuoi crediti. Ti sei iscritto alla specialistica, hai dovuto fare degli esami in più e,anche se il tuo preside di facoltà armato di bacchetta magica ha tramutato esami di estetica in esami di storia dell'arte per poter agevolare la tua iscrizione ad un corso di laurea magistrale appena nato, hai dovuto sgobbare più degli altri. Ma ti consolato raccontandoti che la conoscenza è un tesoro di inestimabile valore. Peccato che il mondo del lavoro non la pensi allo stesso modo. Così, da studente lodato e apprezzato, in tempi di crisi, dopo 20 anni di Mediaset, ti sei trovato ad essere un lavoratore troppo qualificato...
Volevo nascere quando Paolo Rossi non giocava nell'Italia, volevo nascere quando Barbara Palombelli e Lucia Annunziata tiravano sampietrini per strada, forse anche un po'prima, così magari a quest'ora condurrei in Mezz'Ora o al massimo starei in radio.
Volevo nascere meno sbagliata e meno sfigata, ma sono nata nel 1982, sono cresciuta con Baggio e Bonolis, e ogni notte sogno il funerale di Berlusconi proprio quando l'Italia sta per uscire dall'euro e ho ottenuto, oltre alle solite collaborazioni, anche il tanto agognato lavoro precario. Pensione? Cos'è? Un nuovo spred, un bond o un btp?
Certo Barbie non aveva di questi problemi né tanto meno Tania; a loro bastava sorridere cosparse di lustrini, o al massimo scimmiottare Miss Italia, per sopravvivere nelle nostre camerette rosa. Noi, invece, tutto ciò che abbiamo dobbiamo farcelo bastare e sperare che la situazione non peggiori. A volte vorrei tornare bambina e fuggire via a bordo di una scopa con la mia Baby Mia. Ad avercela!(la scopa o baby mia? Entrambe: ma posso sempre usare la folletto e il mio orsacchiotto: mutando l'ordine dei pupazzi, l'evasione dall'incubo non cambia).

mercoledì 23 novembre 2011

L'ordine nei casetti

Mettere in ordine i calzini. Rimettere a posto i tiretti, impilar mutandine, canotte e perizomi. Pensavo che non sarebbe mai accaduto, soprattutto a me che amo il disordine. Ho sempre ritenuto il caos altamente creativo e geniale al contrario dell'ordine asfissiante e limitante. Mi sono sempre rifiutata di passare ore a disporre cenci che, dopo poco, sarebbero stati inevitabilmente rivoltati. Eppure un sabato mattina mi sono scoperta ad rassettar calzini.
Non mi pareva vero e mi chiedevo se quei tiretti fossero i miei. Me li ricordavo diversi. Calze di nylon alla rinfusa, calzettoni bucati e spaiati, confezioni intonse di collant Calzedonia, Sloggi asserragliate in un angolo a difesa di un paio di calzini viola di IO(l'asinello di Winnie the pooh). Aprendo il tiretto, di solito, assistevo ad interminabili battaglie fra squallidi gambaletti da vecchia beghina e calze nere a rete da aspirante battona, mi imbattevo in duelli serrati fra leggins neri e parigine colorate. Ma, da brava pacifista, ho firmato il mio tratto permanente. E, ancor prima dell'armistizio, mi sono chinata sul campo di battaglia e ho preso a riporre i soldatini ciascuno al proprio posto. Quando ho terminato, ho sorriso come un uomo intirizzito dal freddo che si rende conto di essere stato appena sfiorato da una miracolosa scheggia di sole. Ero pervasa da uno strano senso di appagamento. Mi sentivo soddisfatta del mio operato. Possibile? Strano ma vero.
Forse è arrivato anche per me il tempo di dare forma al mio caos. Di svuotare l'armadio che in questi anni ho riempito di sogni, aspirazioni, pagine, passioni, giudizi, pensieri, paure, rabbia ed intuizioni. Di "vorrei", "mi piacerebbe", "o forse dovrei". Di cambiamenti veri o presunti, di amici non sempre adeguati, di barriere e steccati. E di decidere chi e cosa deve stare dentro e chi inevitabilmente va messo alla porta per ora o per sempre. Forse, anche per me, è arrivato il tempo di essere senza ma e senza se.

lunedì 21 novembre 2011

Dal cicisbeo alla nana, la Proship colpisce ancora

Non è una faccenda personale ma una battaglia di civiltà. Non si possono prendere in giro le persone. Non è giusto convocare qualcuno per un colloquio, promettergli un lavoro, costringerlo a svegliarsi di buon mattino e a predisporsi ad una "giornata di prova in azienda", e poi, alla fine, rivelargli che sta per essere reclutato come venditore porta a porta. I truffatori vanno denunciati e combattuti fino allo stremo delle forze. E la Proship è una di questi.
Dopo gli articoli sugli imbroglioni di Viale Asia 21, ho ricevuto altre segnalazioni da ragazzi che, ahimé, stavano per cadere nella rete. Il primo a scrivermi è stato Daniele.
Il malcapitato ha trovato il solito annuncio su Portaportese, che vi sconsiglio vivamente di consultare, e ha telefonato al numero indicato. Naturalmente a telefono non gli hanno detto di cosa si trattasse esattamente e l'aspirante lavoratore si è precipitato al colloquio sperando di capirci qualcosa. La location era la stessa e l'atmosfera pure. Segretarie coatte vestite a festa che si muovono come manichini sincronizzati in una minuscola hall al ritmo di vecchie hit da discoteca, telefono che squilla in continuazione e un via vai i ragazzi. Ma, questa volta, ad accogliere gli aspirantinonsisabenecosa non c'era un gentile cicisbeo napoletano con indosso un completo grigio del 1950 di 4 taglie in più della sua, bensì una sua cordiale corregionale diversamente alta.
La nano"manager", dopo aver dato una rapida occhiata al cv del ragazzo, quanto bastava per costruire una posizione lavorativa appetibile che potesse indurre il disoccupato disperato ad accettare la sua offerta, l'ha accolto nel suo ufficio e gli ha proposto un lavoro in amministrazione.
"Ho avuto un colloquio venerdì- scrive Daniele- e mi hanno offerto un posto nell'amministrazione di questa agenzia di start up che lavora con i più grandi brand internazionali".
La donatrice di lavoro, poi, avrebbe cominciato a bombardare il candidato di informazioni sull'azienda e sul lavoro che sarebbe andato a svolgere, senza tuttavia soffermarsi sui punti salienti del discorso, utilizzando un linguaggio tecnico, un po'come l'azzeccagarbugli con Renzo nei Promessi Sposi, e tessendo le lodi della multinazionale per quale lei stessa lavora. "Mi ha detto che la sede dell'azienda si trova a Brescia", continua Daniele. Balla stratosferica. Se il guru-padrone-fondatore è napoletano, e di fatto non sembra che questa multisola abbia una sede ben definita, ma prenda in giro i disoccupati di tutta Italia, come si fa ad affermare che risieda al Nord? Forse ritengono che essere in cerca di lavoro significhi non avere un cervello?
Per fortuna Daniele non è uno stupido. Non si è bevuto nessuna delle ciarle proferite da Polly Pocket dei quartieri spagnoli e ha deciso di fare una ricerca online sulla Proship prima di presentarsi alla giornata di selezione.
"Onestamente mi ero illuso di aver finalmente trovato lavoro, ma stamattina cercando informazioni sull'azienda per la quale avrei dovuto lavorare, ho avuto una "bellissima" sorpresa: un'azienda così importante non ha un sito internet! Però, cercando su google 'truffe a chi cerca lavoro' sono stati i primi della lista!".
Internet ha evitato che il nostro cercatore di lavoro perdesse una mattinata in giro per Roma al seguito di qualche sedicente "responsabile delle risorse umane".
Ancora una volta l'ennesima delusione è stata sventata ma non è stato sufficiente. Perché sia Daniele che Chiara, un'altra mia corrispondente dalla selva oscura dei disoccupati romani, pochi istanti dopo, si sono imbattuti nella MK, fonte, come sempre, Portaportatese. La società è in cerca, manco a dirlo, di magazzinieri, segretarie e altro personale che svolga lavori generici. La sede si trova a Mostacciano(zona Eur Torrino). E, a quanto mi è stato narrato dai miei informatori, sarebbe una Proship 2, in odore di truffa.
Dunque, cari aspiranti lavoratori a tempo determinato, stagisti, futuri precari in cerca di un sedia precaria in un non-precario edificio, per ora, memorizzate bene questi nomi, Proship e MK, e sappiate che da loro non otterrete mai un lavoro serio. Perciò, rivolgetevi altrove!

domenica 13 novembre 2011

I care

Quante volte ho sognato di svegliarmi e di non veder più Berlusconi. Sognavo spesso di mettere piede giù dal letto e di non essere più nell'Italia berlusconiana. Sognavo di vivere in un altro universo, in cui essere laureati, colti e appassionati di libri, giustizia e teatri, non significasse essere disadattati. Un mondo in cui lo studio non fosse un problema, una macchia da eliminare dai curricula. Sognavo di non sentire mai più editori pronunciare le seguenti frasi:"Devi curare la tua immagine, andare in palestra e dall'estetista, frequentare determinate boutique. Io voglio riprendere le attività della mia casa editrice 24 ore su 24 e mandarla in onda su Twitter!". Ho sognato gente che legge nelle strade e spegne la televisione. Giornali in cui valgano più gli articoli dei box pubblicitari. Sanremo senza veline decerebrate, programmi privi di donnine nude incapaci di parlare-ballare-recitare ma brave solo a procacciarsi il favore del produttore...Chissà come.
Pensavo che un giorno avrei letto un articolo d'informazione anche su Repubblica e non un pastone. Mi auguravo di accendere la tv, sintonizzarmi su Rai 3 e rivedere Parla con Me, Cominciamo Bene Prima, Palco e Retropalco, Vieni via con Me, La Storia Siamo noi e uno spettacolo di Gaber in prima serata. Sognavo programmi nuovi e contenitori culturali anche sul primo canale o quanto meno un telegiornale degno di questo nome. Mi auguravo la morte di Bruno Vespa, dei plastici, dei delitti e di tutte le armi di distrazioni di massa. Speravo in un monumento a Falcone, Borsellino e Livatino, una medaglia al valore civile a Nicola Gratteri, invece mi imbattevo in Mangano, Dell'Utri, Cosentino, Cuffaro e Romano, per citarne alcuni.
Mi illudevo di poter gustare la satira di Guzzanti, Luttazzi, Crozza, Rezza e altri ancora e speravo che un manipolo di incazzati riservasse a sua Emittenza il trattamento che meritava: una bella tortura culturale. La Corazzata Potemki proiettata a tutte le ore nelle stanze del suo potere, dopo una preventiva evirazione.
Fosse stato per me l'avrei fatto eliminare da una mujer asesina ex agente del KGB, così si sarebbe avverata una delle sue pretestuose ossessioni. Ma ci hanno pensato escort, minorenni e starlette, a picconare il suo trono stellare.
Nulla hanno potuto polticanti e magistrati, Veronica Lario è stata la vera teorica e realizzatrice di un'efficace politica antiberlusconia, e questo la dice lunga anche sulla sedicente "sinistra" (soprattutto quella dalemiana-santoriana) che nulla ha da invidiare al suo naturale ispiratore.
Oggi vorrei leggere Montanelli e Biagi sul giornale. Oggi vorrei scorrere le parole di Oriana e sentir Pasolini esclamare: "Ve l'avevo detto". Oggi vorrei incontrare Elsa Morante e Moravia. Oggi vorrei poter, come tanti altri, esultare. Ma proprio non ci riesco. Perché l'eliminazione del Caimano è solo il primo atto della rinascita, se mai ci sarà, di quest'Italietta mediatizzata; ora dobbiamo eliminare tutti gli effetti del berlusconismo nella nostra cultura, smettere di recitare e dimenarci davanti allo specchio, rinunciare a venderci al miglior offerente e ritornare all'impegno, riprenderci la politica, ripartire dal basso, da noi cittadini. Ricostituire, in una parola, una società solidale improntata al bene comune. Che parolone. Ammazziamo il Berlusconi che è in noi per salvare la nostra Patria e di conseguenza noi stessi dalla voglia di farla finita per sempre.
Se è vero, come dicono,che sarà sempre peggio, nessuno è in grado di salvarsi da solo. Siamo tutti soli sullo stesso vascello che imbarca acqua. Riprendiamoci l'Italia, tutti insieme, senza distinzioni, ma facciamolo ora. A che serve festeggiare? Il mondiale è appena iniziato. Son lontani i quarti di finale. Per vincere la guerra non basta portare a casa una battaglia.
Poco mi importa, in verità, della fine della feccia e dei suoi attoruncoli vestiti da ministri, poco mi interessa che la Gelmini smetta in inforcar occhialini senza lenti, che la Carfagna torni a far calendari. Non è questa la speranza che coltivo. Non è questo ciò che da italiana merito. Auspico, invece, di vedere frotte di giovani, ragazzi, non Renzi, impegnati sul serio, per creare, insieme, un'Italia migliore.

domenica 30 ottobre 2011

La cinese

Roma, giovedì pomeriggio, ore 16 circa. La squinternata è di nuovo in strada. Ha letto su Portaportese che un negozio di abbigliamento a San Giovanni cerca una commessa part-time, preferibilmente studentessa. Ed eccola che, con una buon dose di ottimismo, e un sorriso finto da animatrice turistica stampato in faccia, apre la porta di casa pronta ad affrontare una nuova fatica. E, innanzitutto, dà una sistemata ai suoi curricula taroccati. "Per cosa ci candidiamo oggi? Per un posto da commessa. Bene, dunque in pole position vanno messi i cv depotenziati:solo laurea triennale, nessuna esperienza giornalistica, uscita dalla Sapienza ho fatto l'animatrice- l'educatrice e la figurante". Perfetto, la squinternata aveva ripassato la parte ed era pronta a recitarla. Si apre il sipario, tutti in scena...
Sono arrivata nei pressi del negozio senza alcuna speranza. Sapevo che mi avrebbero scartata subito ma ho voluto provare lo stesso. Mi ero abbigliata da ragazzina, di solito, anche quando cerco di camuffarmi da persona seria, dimostro sempre qualche anno in meno. E'una fortuna. Però, i migliori portali per la ricerca del lavoro insegnano che, soprattutto in sede di colloquio, non bisogna lasciare nulla a caso. Anche l'abbigliamento deve essere studiato, mirato, approfondito. E una commessa deve essere alla moda, al passo con i tempi, quindi: minigonna, leggins, stivale basso beige, giubetto dello stesso colore e borsa abbinata: mi guardo allo specchio Ikea, ricevo un occhiolino di incoraggiamento e mi rimetto in viaggio.
Camminavo spedita, di tanto in tanto lanciavo qualche sguardo alla strada, pressoché deserta, saracinesche chiuse, qualche indignato assonato, e un gruppo di turisti stranieri. Le foglie secche cadevano dagli alberi e andavano a riempire il marciapiedi dall'altro lato della strada, mentre il tram, cigolante sulle rotaie, si avvicinava alla prossima fermata.
"Numero sette, è il mio. Ci sono", ho pensato quando ho realizzato di essere arrivata a destinazione. Il negozio era microscopico, buio ma in vetrina vi erano abiti costosissimi. Involontariamente ho sollevato lo sguardo e mi sono imbattuta in una scritta:"Cedesi attività". Perché mai chi ha deciso di vendere la propria attività commerciale si mette a cercare una commessa? Mah...
Scelta molto singolare a mio parere. Tuttavia ormai ero lì, quindi tanto valeva affrontare un colloquio, qualora ve ne fosse stata la necessità. Mi sono fatta coraggio e sono entrata. Ma non ero sola. Dietro di me c'era una ragazza cinese dal viso buffo; capelli neri cortissimi, pelle molto chiara e un paio di occhiali tondi non molto spessi poggiati sul naso. La cinesina, minigonna di jeans e Superga ai piedi, è andata dritta dalla commessa capo.
La proprietaria, un signora romana sulla sessantina, col naso capriccioso e le palpebre socchiuse, stava interrogando una candidata. Sembrava che non le andasse bene nulla. Aggrottava le sopracciglia e arricciava la bocca ad ogni affermazione della sua interlocutrice. E, dopo un po', annoiata, ha zittito l'aspirante commessa, dicendo:"Le faremo sapere". Aveva tutta l'aria di chi non ha alcuna intenzione di assumere altro personale.
Non appena la prima malcapitata si è dileguata, la signora bionda, seduta comodamente in poltrona, ha posato lo sguardo su di me e, ancor prima di chiedermi il cv, ha perso a bombardarmi di domande:"Dove abita? Studia? Quanti anni ha?". La mia risposta naturalmente non è stata di suo gradimento. "No, mi spiace. Noi cerchiamo la ragazza di negozio...", ha concluso e e mi ha liquidato.
Non ho capito bene cosa volesse dire. Ma ho preferito non indagare oltre. E mi sono avviata verso l'uscita ma non ho potuto fare a meno di ascoltare il dialogo tra la cinese e la commessa in carica.
Finalmente era arrivato il suo turno. La cinese aveva atteso in silenzio che la proprietaria si liberasse e alla commessa venisse dato il permesso di parlare, ed ora poteva farsi avanti, aveva l'opportunità di presentare la sua candidatura. Ma, quando la commessa capo le ha sorriso e gentilmente le ha domandato del curriculum, la cinese ha fatto un passo avanti e, scuotendo la testa, ha replicato:"Non voglio fale la commessa. A me intelessa complale l'attività!".
Non ci resta che LIDELE: la Cina avanza e noi arretriamo.

venerdì 28 ottobre 2011

Achtung: Non rispondere a questo annuncio

Il cicisbeo napoletano si è dimostrato un truffatore. Abbigliato come un rappresentante di pentole, gentile e cordiale, in realtà voleva arruolare promoter. Ma procediamo con ordine. Mercoledì mattina mi sveglio prestissimo e mi presento in Viale Asia 21 (zona Eur) alle 8.15 circa. Avevo appuntamento col manager dell'azienda, la "Proship"- ricordatevi questo nome-, alle 8.30. Ho preferito, tuttavia, arrivare un po'prima. Pioveva e non volevo essere bloccata dal nubifragio. Per fortuna, non sono stata la sola a pensarla così. Davanti al portone c'era un'altra ragazza in attesa. Poiché il colloquio, a dire la verità assai fumoso, nel senso che mi erano state fornite pochissime informazioni sul lavoro che sarei andata a svolgere e soprattutto sul luogo di lavoro, non mi aveva convinta, ho pensato bene di indagare. La mia compagna d'avventure sarebbe stata la prima ad essere interrogata. Aveva sostenuto il colloquio dopo di me, rispondendo, anche lei, all'annuncio che aveva trovato sul Portaportese.
Ora, sull'annuncio si parla di "Nuova apertura di un punto commerciale", e le figure richieste sono: hostess, addetti al magazzino, amministrazione d'ufficio, marketing. Ma in sede di colloquio non si era parlato di nulla di tutto ciò o meglio nel mio caso si è fatto un accenno al marketing, allo studio del prodotto, all'analisi dei dati e a fantomatici business plan. Mentre la ragazza con la quale stavo parlando era stata adescata con la promessa di un posto da segretaria. Dunque la giornata di formazione non poteva svolgersi lì. Ci avrebbero portate altrove. Sì, ma dove?
Ho cominciato, tuttavia, ad essere assalita dai dubbi solo quando, voltandomi verso il citofono, mi sono accorta che era stata cambiata l'intestazione. Da "Proship" la società era passata a chiamarsi "Golden Age". Strano, molto strano, ho pensato. Ma ho taciuto. Dopo poco il numero di astanti è aumentato. Ci ha raggiunte Natasha, una giovane donna russa. Alla domanda:a te cosa hanno detto?Cosa dovrai fare? Ha risposto:"Dovrò occuparmi di promuovere un prodotto nella mia area, in Russia". La faccenda si fa sempre più ingarbugliata, addirittura lei deve fare delle telefonate internazionali?Mah.
La folla davanti alla porta aumentava. Gli ultimi in ordine di tempo a ripararsi sotto il portone dell'azienda sono stati due ragazzi calabresi, di Vibo Valentia, arruolati come magazzinieri. Ma uno di loro aveva intuito prima degli altri la truffa. "Secondo me, ragazzi questi ci portano a fare vendita porta a porta altro che. Dove pensate che sia qui il magazzino? Secondo me non esiste!", ha esordito il ragazzone biondo dagli occhi verdi e il volto rassegnato. E, poco dopo, le sue parole hanno trovato conferma nei fatti. Un gruppo di ragazzi e ragazze ben vestiti, gli uomini abbigliati pressapoco come il cicisbeo, tra il testimone di Geova e il rappresentante di pentole, e le donne molto truccate e superintacchettate, tutti armati di ombrelli e voluminose cartelline, ci è sfilato davanti. C'eravamo cascati tutti, ma io volevo andare a fondo. Finalmente la segretaria, una nanerottola sospesa su un paio di stivaletti tacco quindici vestita di nero e fucsia, con la stessa maglia, gli stessi pantaloni e la stessa collana del giorno prima, ci ha consentito finalmente di salire.
Lo scenario era sempre lo stesso. Stanza stuccata di rosa, segretarie mediamente coatte, che si muovo all'unisono, sorridono e rispondono al telefono, e in sottofondo, nemmeno troppo sottofondo visto che il volume era altissimo, musica da discoteca anni 90'e jingle da Love Boat. La puzza di metodo americano stile Kirby si leva dal pavimento, sbatte contro il soffitto e ti si appiccica alle narici.
Ci siamo seduti, la segretaria fucsia ci ha distribuito delle schede da compilare ma tutti noi, prima di scrivere, ci siamo guardati in faccia e con molta circospezione abbiamo cominciato a compilare l'autorizzazione ad effettuare una giornata di prova con l'azienda truffaldina. Natasha, dopo un po'si è fiondata sulla nanerottola bruna e le ha chiesto delucidazioni sul nome dell'azienda. Le avevo dato l'imbeccata. "Mi scusi, mi hanno detto che il nome dell'azienda è cambiato. Ora si chiama Golden Age ma prima aveva un altro nome!", ha tuonato la russa. E la nanerottola, sulle note di Scatman John, ha replicato piccata che non era così e che l'azienda, esistente da un anno, aveva avuto sempre lo stesso nome. Bugia.
Dopodiché il cicisbeo ci ha chiamati uno ad uno e ci ha affidati ad una persona. Io ho visto sparire i miei colleghi di sventura dietro la porta per non ricomparire più. Poi ho scoperto che l'ufficio del damerino napoletano sempre cordiale e sorridente era dotato di una porta d'ingresso autonoma. Perciò io la mia formatrice, una ragazza bionda vestita di nero dal volto butterato, venuta da Palermo "appositamente per la formare e selezionare il personale", ci siamo incamminate verso la metro. Lungo la strada incontravo i miei colleghi che avevano già abbandonato, mi lanciavano occhiate allarmate, provavano a mettermi in guardia con le espressioni del volto, perché la formatrice non gli permetteva di avvicinarsi. Io avevo capito ma volevo andare avanti nella mia indagine e riuscire a carpire altre informazioni.
La palermitana mi ha mollato subito, si è giustificata dicendo che aveva un impegno alle 10 e mi ha lasciata con una rumena, Antonella, che mi avrebbe introdotto al lavoro. La ragazza, prima di tutto, mi ha offerto un caffè e dialogando con lei mi sono accorta subito che fosse più malleabile della sua collega, parlava di più e, benché sembrava temesse di sbottonarsi troppo, non era poi così difficile spillarle altri dettagli.
Sebbene si trincerasse dietro una terminologia aziendale, americana, mandata a memoria senza comprenderla fino in fondo, la rumena alla fine ha ammesso che il lavoro consisteva nel promuovere casa per casa, negozio per negozio, servizi o promozioni di una determinata azienda. Più contratti chiudi più guadagni. Altro che marketing, business plan e robe avveniristiche, ogni "formatore" e di conseguenza ciascun collaboratore ha una zona di Roma da setacciare in cerca di nuovi clienti e nuovi contratti.
L'azienda, "Always one", mi ha spiegato la rumena, è stata fondata da un certo Raffaele Di Nardo che, dopo aver conseguito una laurea in Economia in Italia, è volato in America per un master nella Grande Distribuzione e, una volta tornato, ha messo in piedi questa società che offre servizi, o meglio promoter, alle aziende prendendo in giro gli aspiranti candidati con annunci e colloqui fasulli. Il metodo è chiaramente esportato dagli Stati Uniti.
Prima ti dicono esattamente quello che vuoi sentirti dire, ti tagliano il profilo su misura, in modo che tu, allettato dall'offerta, non possa rifiutare. Poi se non fuggi, come abbiamo fatto io e i miei compagni di sventura, ti formano a dovere.
"Hanno un metodo di insegnamento che non trovi altrove", ripeteva la rumena per convincermi a restare. Che tradotto sarebbe: ti fanno il lavaggio del cervello, ti convincono che lavori per una grande azienda, che il fondatore sia una specie di guru, ti promettono avanzamenti di carriera e grandi guadagni, ma alla fine non fai altro che bussare alle porte, importunare le persone e vendere chiacchiere. "No, grazie", è stata la mia risposta finale e mi sono congedata intorno alle 11, lasciando Antonella in un bar con uno dei suoi sottoposti.
Per evitare che altri caschino nello stesso tranello, riporto i numeri telefonici dell'ufficio, che troverete nell'annuncio: 06\59290231- 06\54229898. Mi raccomando, non vi fate prendere per il naso. Buona fortuna!

martedì 25 ottobre 2011

Bianca Roma

Ieri ho capito- o forse già lo sapevo e ho semplicemente realizzato- perché mi sono innamorata di Roma. Perché è grande. Enorme. Vasta. Ampia. Accogliente. Aperta. Insomma: un ricettacolo di possibilità. Conoscerla tutta, a fondo, è pressoché impossibile. Il suo fascino sta nell'imprevedibilità. Mentre cammini non sai mai cosa potrà spuntare da dietro un albero, una siepe o un muretto di cinta. Scivolando agevolmente sulle ampie strade, ti scopri a strizzare gli occhi per spingere lo sguardo oltre la linea che delimita il tuo campo ottico. L'immagine sulla tua retina è sbiadita, sgranata, ma l'intuito ti spinge ad avvicinarti. Vedi da lontano un mausoleo, una costruzione bianca mastodontica che ricorda il Tash Ma Al. La cupola è identica. Inoltre vi si accede percorrendo una larga gradinata sormontata da due statue enormi. Da lontano non riuscivo a vedere cosa ritraessero, non avevo molto tempo per soffermarmi, stavo andando ad un colloquio di lavoro, ma mi sono ripromessa che al ritorno, avrei inseguito quel miraggio, avrei percorso la strada fino in fondo e sarei salita sulla gradinata avvicinandomi alle due sfingi di marmo e alla strana pagoda all'orizzonte. Ho alzato il passo e ho imboccato, sollevata, Viale Asia. Anche una gita forzata in un altro quartiere, a Roma, può tramutarsi in un viaggio d'istruzione.
Per il colloquio non ci hanno fatto aspettare molto. Eravamo in tre alle 15.30. E io sono stata la prima ad entrare. Un cicisbeo pelato che trasudava aziendalismo e marketing da ogni poro mi ha fatto qualche breve domanda sulle mie "aspettative", fortunatamente non ha indagato oltre con sospetto sul mio cv, anzi mi ha lasciato esporre educatamente le mie ragioni e mi ha fissato un appuntamento per una giornata di formazione in azienda. "Serve a lei per conoscere noi e a noi per conoscere lei", è stata la chiosa marzulliana del damerino dall'accento napoletano. Il lavoro che mi è stato prospettato, per una volta, sembra una cosa seria. Ma preferisco smontare le pellicole che la mia testa di disoccupata cronica ha preso ad girare.
Sono uscita dalla stanza stuccata di rosa assai baldanzosa, ho salutato una fioraia rumena che era in fila con me davanti al portone e sono uscita diretta verso la mia nuova Mecca, la chiesa che avevo intravisto tra gli alberi in cima ad un vialone. Ho percorso la strada a falcate. Sgusciavo rapida tra gli alberi gettando occhiate voluttuose alle vetrine dei negozi. "Quanta bella roba! Ma che prezzi!", pensavo tra me e me, e intanto andavo, decisa e fiera, verso la meta. Quando, finalmente, sono arrivata ai piedi della gradinata, ho alzato lo sguardo e ho visto davanti a me due uomini in marmo altissimi, imponenti, con un libro sotto un braccio, sicuramente meno ospitali del Cristo di Maratea. Erano San Pietro e Paolo, santi patroni di Roma, ai quali è dedicata la Basilica. All'ingresso è incisa la celebre frase con quale Cristo fondò la Chiesa- che nella sua mente doveva essere ben diversa da ciò che poi è diventata- ovvero: "Pietro, tu sei pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa". Mi è venuto in mente il quadro che raffigura l'investitura di San Pietro, ho provato ad interrogare il mio hard disk sull'autore del dipinto, ma l'unica cosa che è riuscito a reperire è stata l'immagine della pagina del libro di arte del liceo in cui si parlava del quadro. Magra consolazione.
Tornando alla costruzione, all'esterno è molto bella, all'interno invece, come tutte le chiese moderne, è abbastanza spoglia. E oltre al solito crocifisso di arte contemporanea e ad una statua della vergine Maria, naturalmente in una navata, con tanto di cassetta per le offerte in bella mostra, c'è anche lui, l'uomo delle stimmate. Padre Brand, San Pio da Pietralcina. Il sacerdote, un giovane corpulento vestito di blu, prima di sparire compiaciuto dietro ad una porta a vetri, ha versato qualche spicciolo nella cassetta ai piedi di Santo Marketing e tutte le candele intorno a lui, magicamente, si sono illuminate. Padre Pio sembrava un albero di Natale. A quel punto ho dato le spalle all'altare e sono uscita.
La chiesa si innalza su un grande altare di marmo bianco, girando un tondo si scopre il convento dei frati, dotato di un bellissimo chiostro bianco che riprende, nell'architettura, il palazzo dei congressi dell'eur e tutte le costruzioni del quartiere edificato in epoca fascista. Inutile dire che il bianco predomina. E rapita dal candore dei marmi colpiti dai raggi tiepidi di un pallido sole autunnale, mi sono seduta ad osservare una parte della capitale a me ignota, avvolta nella luce diafana del crepuscolo. Ho chiuso gli occhi e ho tirato su col naso per annusare l'aria madida di brina. Pensavo di essere sola ma, quando ho riaperto le palpebre, accanto a me ho visto una donna minuta vestita di bianco che mi ha sussurrato i seguenti versi:
"La libertà che abbiamo conosciuto
Evitata- come Sogno-
Troppo lungo per qualsiasi Notte se non per il Cielo-
Ammesso che Quello- davvero- sia la salvezza"...
Emily Dickinson

(Poesia del 1862 contenuta in "Sillabe di Seta")

venerdì 21 ottobre 2011

Beate le shampiste

Scorrere di continuo le pagine nere del Portaportese fa male agli occhi. Continuare a mandare lettere di presentazione e cv a fantomatici datori di lavoro che, il più delle volte, non rispondono, è alienante. Ma se non lo fai ti prende l'ansia. Perché pensi che stai perdendo ore decisive per trovare un lavoro. Poi, però, ti domandi a cosa serva, se alla fine anche per il mondo del lavoro-generico s'intende- sei troppo qualificata.
Sostanzialmente funziona come con gli uomini. Per alcuni, quelli più scadenti di solito, o quanto meno affetti da un'infinità di complessi tale che quando entrate nella loro auto per la prima volta sentite una strana musica, e non è la radio né un'allucinazione, ma la loro orchestra interiore che esegue aria sulla V corda, e prelude ad una serie infinita di cadute di stile alla quale voi, rincretinite, non dare alcun peso salvo poi ripensarci in seguito e domandarvi:"Come ho fatto a non accorgermene prima?"...Sì insomma, per questi casi disperati di mezzi uomini, abituati a Cat Woman e Shampoo Girl, voi sarete naturalmente "Troppo" e quindi vi scaricheranno con la solita solfa (la sentirete perché i maschi in queste cose sono variegati come gli abiti della Benetton: cambiano solo i colori ma il capo è lo stesso) della ragazza da STORIA, del "non ti merito", e in taluni casi, assai rari, se portati all'esasperazione, arriveranno ad ammettere la dura verità:"Preferisco una shampista a te!".
Ora dovremmo, per intenderci, accordarci sul significato del termine "shampista". La signora in questione è quella tipologia di donna, generalmente mononeuroide, tutta tacchi, lampade e cinepanettoni, che non è abituata a pensare e, conseguentemente, a parlare, facendo discorsi di senso compiuto. Un manna da cielo per un essere umano di sesso maschile che, notoriamente, quando ha una fanciulla davanti pensa solo ad una cosa. Perciò voi che amate le ciarle, le confidenze, la complicità, e magari il cinema, il teatro e- cosa imperdonabile- i libri, verrete scartate ben presto. Dangerous woman.
Le vostre amiche vi consoleranno dicendo che lui non vi meritava, che non valeva nulla, che era persino invidioso di voi, ma voi vi sentirete comunque Ugly Betty e vi rammaricherete di aver passato il vostro tempo a leggere e guardare film, quando potevate starvene comodamente sedute in poltrona a farvi le unghia ingollando litri di lacrime dei Nemici di Maria De Filippi ops... Amici. Ecco, la stessa dinamica si ripete sul lavoro.
A livelli alti sei tu che paghi loro per lavorare ma per loro i tuoi titoli non sono mai abbastanza quindi, prima di prenderti in stage, non retribuito naturalmente, ti propongo di seguire un corso, a tue spese, per accedere al Grande Fratello degli stagisti. Il migliore, il più motivato di tutti gli sfigati, potrà restare in azienda, per finire poi in strada dopo tre mesi e ricominciare la trafila di cv, lettere di presentazioni, colloqui e umiliazioni.
A livelli bassi, ovvero per lavori generici, o comunque molto lontani da ciò per cui avete studiato, anni luce dalle vostre aspirazioni, vi imbatterete in persone che vi faranno sentire in colpa per esservi diplomate col massimo dei voti. E sentirete nella vostra testa una vocina melliflua sussurrare:"Invece di stare 14 ore sui libri,avresti fatto meglio ad uscire col giocatore di basket della V C...Te lo dicevo io....". Appunto, ma ormai il giocatore si sarà sposato e voi, che avete passato la vostra esistenza sui banchi, cominciate ad architettare il vostro suicidio. "Beh, potrei salire su una pila di libri di Dostoevskij e Tolstoj e lanciarmi dal tetto del mio palazzo, almeno la cultura mi servirebbe a qualcosa, non sarebbe tutto perduto", penserete. Ma non è il caso di arrendervi così, senza lottare.
I personaggi dei romanzi e dei film che abbiamo amato di più ci insegnano che vi sono mille modi per aggirare gli ostacoli, qualora non possiamo superarli, e ottenere comunque ciò che desideriamo senza che lo strano mondo, in cui, nostro malgrado, ci troviamo a vivere, ci si rivolti contro. E'sufficiente mentire, falsificare, taroccare il nostro cv a seconda dell' annuncio di lavoro al quale avete deciso di rispondere. Questo almeno in campo lavorativo...E che Quelo ce la mandi buona!
Per quanto riguarda gli uomini, vi avverto: non c'è rimedio. Partendo dal presupposto che la loro intelligenza è meno sviluppata della nostra a prescindere, sarete costrette a fare un'accurata selezione e a scegliere, sempre che non siate particolarmente fortunate, il male minore, sperando che l'aspirante compagno ideale non vi scarichi, dopo qualche tempo, per una shampista o che non vi abbia scelto come amante perché a casa ha la cameriera-gheisha che lo aspetta.
Il proverbio secondo il quale dietro a un grande uomo c'è sempre una grande donna è passato di moda. Ormai dietro a un grande uomo c'è un'associazione a delinquere di stampo shampistico con l'aggravante della gatta morta...
Lasciate ogni speranza, o voi, povere illuse.

domenica 16 ottobre 2011

La protesta continua: Gli indignati non si arrendono

L'orda di barbari che ha ieri ha travolto la Capitale è ormai un lontano ricordo. San Giovanni in Laterano, la piazza teatro dello scontro, sembra essere tornata alla normalità. Il corso è affollato. I romani entrano ed escono dalla Coin, a pochi passi dalla piazza. E molti vanno a messa nella Basilica. La segnaletica stradale in alcuni punti è divelta. In altri manca del tutto. E'stata sradicata. All'ingresso della piazza c'è un fosso lasciato dai sampietrini che gli incappucciati hanno usato come armi. Non tutte le pietre sono state rimosse. Qualcuno ha abbandonato il proprio sampietrino- che non è un normale cubetto di porfido, ma è un blocchetto di pietra abbastanza consistente- sui davanzali della chiesa. Altre pietre si trovano agli angoli della piazza. Insomma, i neri hanno lasciato il segno. Ma non sono riusciti nel loro intento. Perché la protesta va avanti. Si è solo spostata qualche metro più in là. Davanti alla Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme si è formato un piccolo accampamento e una cinquantina di persone, da oggi pomeriggio, sono riunite in assemblea.
Il momento di condivisione previsto in piazza San Giovanni, infatti, c'è stato eccome. I pochi partecipanti, i temerari che non hanno desistito, si sono organizzati e si sono dati appuntamento per oggi con l'intento di darsi una regola, di strutturarsi e portare avanti il movimento nato dalla manifestazione. Le varie anime che ieri hanno sfilato in piazza, ossia i gruppi che si sono costituiti negli ultimi tempi, sono confluiti in un'unica assemblea. Ma formalmente si sono sciolti. Perché ciascun indignato parla per sé. Partecipa alla rivoluzione pacifica e democratica come singolo cittadino. Questo è il link del blog creato dagli Indignati romani:http://italianrevolution-roma.blogspot.com/. Qui si possono trovare tutte le informazioni sul movimento, sulla protesta e sull'organizzazione.
Per ora sono previste due assemblee a settimana, una il mercoledì e l'altra la domenica, nel corso delle quali si parlerà, si avanzeranno proposte e si cercherà di costruire un'alternativa sociale al sistema esistente. Parola d'ordine condivisa da tutti: concretezza. Le assemblee sono state strutturate e regolamentate. Chi voglia intervenire deve prenotarsi. Non è consentito interrompere chi parla e per approvare o disapprovare le proposte che vengono fatte nel corso della discussione sono stati stabiliti dei gesti. "In modo che non si crei casino", mi spiega Daniela, una ex drago ribelle. La ragazza mi ha illustrato rapidamente gli interventi del pomeriggio e ha aggiunto: "Tra tutti gli interventi mi ha colpito molto quello di una signora anziana che ha vissuto sotto il fascismo, ha fatto la resistenza e ci ha incitati ad andare avanti".
In assemblea, intanto, un ragazzo fa notare che su Facebook ci sono molti gruppi filo-indignati che dovrebbero essere coinvolti. "Bisogna creare un movimento unico, dobbiamo unirci!". Gli indignati si stanno organizzando, dunque, hanno già creato delle commissioni che lavoreranno per contrastare la violenza, un comitato che si occuperà dei rapporti con la stampa e hanno chiesto, a chiunque ne abbia voglia, di contribuire alla protesta con coperte, cibo e docce da offrire agli accampati. A Roma fa freddo. Stasera in modo particolare. Ma gli indignati non si arrendono.

Da Woodstock agli anni di Piombo: doppiamente indignati

Sapevo che ci sarebbero stati degli scontri. Massimo Gramellini, dalle colonne della Stampa, aveva invitato tutti ad evitare la violenza. Altri paventavano addirittura una seconda Genova. Non pensavo, però, che si sarebbero avverate le profezie più nefaste. Qualcuno aveva cercato di dissuadermi dal partecipare alla manifestazione, ma io non mi sono certo lasciata intimorire dalle probabili esplosioni di violenza e alle 13 sono partita da Tiburtina per ricongiungermi con le mie amiche a piazza della Repubblica.
I vagoni della metro erano stracolmi di manifestanti. Ragazzi provenienti da tutte le regioni di Italia. Ho viaggiato accanto ad un gruppo di studenti toscani, tra loro c'era una ragazza paffutella, col volto rubizzo, vestita di bianco, che teme la folla a causa della sua claustrofobia. Il resto del gruppo faceva di tutto per aiutarla, durante il tragitto in metro le soffiavano l'aria volto in modo che non avvertisse quella sensazione di oppressione, pericolosissima per i claustrofobici. Le ho sorriso e, quando siamo arrivati a Termini, l'ho fatta passare avanti. Aveva bisogno di respirare. Come immaginavo, però, alla stazione Termini c'era meno aria che nella metro. Un interno popolo di indignati si stava muovendo. Bandiere colorate, urla di gioia, visi dipinti, canzoni stonate e mascheroni raffiguranti i politici. Un flusso di allegria e vitalità stava per affluire nelle strade di Roma. Fuori dalla stazione ciascun gruppo ha preso la sua strada. La ragazza col maglione bianco, finalmente, sorrideva serena sotto il sole caldo di Roma.
Ho alzato il passo, prima che Erica mi richiamasse all'ordine; l'appuntamento era per le 13.30 davanti alla Feltrinelli International. Piazza della Repubblica era puntellata di gazebo. Partiti, movimenti e associazioni. C'era anche un gruppo di disabili pronti a sfilare in corteo. Con lo sguardo cercavo i carri del Teatro Valle-Palazzo, ma non li vedevo. L'unico carro che sono riuscita a scorgere è stato quello del 9 aprile, ovvero il carro dei precari. Ma ho proseguito velocemente alla volta del mio gruppo di indignate.
Eccoci qua, ancora una volta, dopo tre anni dalla laurea, chi è disoccupato in cerca di lavoro, chi un lavoro ce l'ha ma non ha un contratto regolare ed più che precaria, chi studia ancora...Ci aggreghiamo al carro colorato, ai lavoratori dello spettacolo e della conoscenza, ai ragazzi del Valle, uno dei teatri più belli di Roma- il Valle è stato costruito nel 1700, ad esso (e non mi stancherò mai di ripeterlo) è dedicata un'intera via nel cuore della Capitale, ma i signori capitalisti, rozzi ed ignoranti (per non dire altro), volevano trasformarlo in un ristorante- occupato da giugno, del Cinema Palazzo e agli studenti della Sapienza. Sul carro Lady Finanza, una procace dama francese dell'800, e una figura esile mascherata danzano a suo di musica, tutt'intorno volano palloncini colorati e qualcuno srotola un drappo rosso, un drago, proprio come i "Draghi" colorati che si aggiungono al corteo. Siamo già in tanti quando arriviamo a Termini.
Ci muoviamo lentamente e accanto a noi campeggiano striscioni della Fiom. Qualcuno fa volare altri palloncini colorati a forma di gallina e di pesce. Dal carro di levano voci di precari, indignati, lavoratori della cultura arrabbiati, persone che, come noi, vorrebbero essere retribuite per il lavoro che svolgono con la propria mente ma, pare, non ne abbiamo il diritto. In corteo sfilano famiglie intere. Mamme e padri giovanissimi con i loro bambini. Carrozzini. Ragazzini sulle spalle dei genitori che sventolano bandiere rosse. E'tutto così colorato e sereno che mi sembra davvero di trovarmi a Woodstock e invece sono a Roma, in Via Cavour, sotto un sole autunnale che non è mai stato così splendente.
Il ritmo della musica cambia, si balla. Sorridiamo, ci divertiamo, ci nascondiamo sotto il drago rosso e alziamo le braccia. "Come facevo da piccola, quando mia madre piegava le lenzuola", ricorda la mia amica Stefania. E'vero siamo preoccupate, è vero non vediamo un futuro, siamo indignate, seccate, stanche di non avere risposte, prospettive e sicurezze, ma oggi sorridiamo. Non possono privarci anche del sorriso. Dal carro Fulvio, uno degli animatori della protesta del Valle, parla di chi lavora con la mente, di chi è dotato di immaginazione, di chi, come noi, svolge o meglio, vorrebbe svolgere, un lavoro intellettuale.
Molta gente si affaccia alla finestra. Applaude. Espone striscioni. Condivide la manifestazione. Persino delle donne anziane, rinchiuse in una casa di riposo, ci salutano e qualcuno urla:"Scendete giù venite anche voi". Il corteo è all'inizio di in Via Cavour, sto per ritornare sotto il drago rosso quando da una stradina laterale, da un vicolo, vedo avanzare una macchia scura seguita da uno striscione rosso. Stefania aggrotta le sopracciglia. Penso che non dovrei preoccuparmi. Lo striscione è rosso, sono ragazzi come noi, altri manifestanti, provenienti da altre zone di Roma, che vogliono aggregarsi al nostro corteo. Ma sono neri, incappucciati e Stefania spinge me e Luana, un'altra amica, fuori dal cordone principale del corteo. "Via, scappiamo!", grida. Ci mettiamo al riparo in una via laterale.
Loro, i teppisti, li hanno visti bene. "Sono incappucciati, hanno delle cose in mano", mi dicono. Spranghe, mazze. Dal carro i ragazzi del Valle si ribellano. "Via via", urlano agli infiltrati. "Andate via, questa è manifestazione pacifica. Vergogna!".
Non ho capito bene cosa stesse accadendo in quel frangente. Ero occupata a fuggire, ma ho visto di sfuggita la macchia nera che avanzava. Dopo un po'credevo che il pericolo fosse scampato. Che si potesse procedere con la manifestazione. Invece, una volta arrivata all'altezza della metro in Via Cavour, ho capito che era iniziata la guerra. Vetri a terra, macchine incendiate. Un negozio di alimentari saccheggiato. Hanno lanciato di tutto contro la vetrina, bombe molotov credo, bottiglie maleodoranti, pomodori e uova marce. Era tutto distrutto. I proprietari, basiti, stavano immobili davanti ai vetri in frantumi, mentre i flash dei fotografi professionisti e non immortalavano lo scempio.
Stefania ha accesso la radio. "Vediamo cosa succede", ha detto. Radio Popolare trasmette la manifestazione in diretta. Parlando di scontri. Cariche della polizia ai manifestanti. San Giovanni, il punto di arrivo della manifestazione, è stata tramutata in un teatro di guerra, e lo stesso vale per le vie d'accesso alla piazza.
Cominciamo a chiederci cosa fare, se proseguire o meno. Abbiamo perso Erica. Intanto sul carro sale Franky HI Energy, il suo rap travolge tutti. Sulle note di "Quelli che ben pensano" balliamo e cantiamo. Noi ci distraiamo e seguitiamo a manifestare pacificamente, ma nel resto della città la guerra prosegue. "E'guerriglia urbana", sentenzia Stefania. Via Labicana, Via Merulana e Piazza san Giovanni sono in fiamme. Che fare?
Sono stati loro, gli incappucciati, a fare casino. Lanciano pietre, bombe carta, molotov. Si scagliano contro polizia e carabinieri. Ma il nostro corteo, i ragazzi del carro, sono del tutto ignari di quello che sta accadendo. Erica va avanti con gli altri. Noi, a causa degli scontri, decidiamo di fermarci. Arrivano le prime telefonate di parenti allarmati. Ci rifugiamo a Monti. Il quartiere è pieno di polizia. Camionette da ogni lato e agenti presidiano i vicoli stretti intorno al Colosseo. Dalla radio giungono notizie inquietanti. Un blindato dei carabinieri in fiamme, sempre a San Giovanni. Manifestanti pacifici che trovano riparo all'interno della Basilica. Camionette della polizia che investono gli stand. La manifestazione è finita. E noi che, dopo aver ascoltato gli interventi a Piazza San Giovanni, avremmo dovuto proseguire la giornata di festa a san Lorenzo, ce ne stiamo sedute in un Caffè nella piazza della Madonna di Monti ad ascoltare gli inviati di Radio Popolare. Mi sembra di rivedere i video delle manifestazioni degli anni 70'. Comincio a temere che ci scappi il morto. Mio fratello a telefono mi racconta le immagini che vanno in onda su Sky. Gente che ha perso l'uso degli arti. Palazzi in fiamme.
Violenza inaudita, ingiustificata. Violenza fine a sé stessa che ha impedito a noi indignati di manifestare il nostro disagio. Eravamo in 150 mila. Non si era mai vista una partecipazione del genere. Ma cosa si dirà di questa giornata? Di cosa si parlerà? Degli scontri, solo di quelli. Noi tutti, giovani senza futuro, ancora una volta, saremo dimenticati. Nessuno citerà quei disabili che hanno sfilato per le vie di Roma. Nessuno parlerà degli operai della Irisbus, degli studenti universitari e dei ragazzi delle superiori. Grazie agli incappucciati, violenti, che hanno fatto il gioco del Palazzo, la manifestazione è stata delegittimata. Ci hanno tolto uno spazio di confronto democratico, quanto meno più evidente di altri che, comunque, sono stati presi e conquistati con l'occupazione. Quindi non è tutto perduto, credo. Ma il segnale che si doveva dare ieri, un segnale di protesta costruttiva, un'alternativa sociale, quello è andato in fumo con le camionette della Polizia. Non voglio fare il Pasolini della situazione, ma la Polizia, i carabinieri, sono più proletari dei neri-incappucciati. E'gente che ha subito tagli alle auto, alla benzina, che lavora in condizioni pietose, mentre i rappresentati del governo si riempiono la bocca di Politiche per la sicurezza. Ma quali politiche e quale sicurezza se questa gente non ha la benzina da mettere nell'auto per andare ad acciuffare i lestofanti né per andarli ad interrogare o a cogliere sul fatto quando è necessario!
"Erano ragazzini, adolescenti e spaccavano le vetrine con i martelli", racconta in maniera concitata una signora su Via Cavour. Il ritorno a casa è un calvario. Monti era un'isola all'interno della città in fiamme. C'era chi si faceva tagliare i capelli dal barbiere con le camionette dalla polizia alle spalle e chi trangugiava pizza e gnocchi anche se da un tavolo all'altro rimbalzavano notizie sempre più agghiaccianti sugli scontri di piazza.
Quando siamo tornate in Via Cavour, ho avuto la dimensione di quanto era accaduto. La strada era tutta bagnata a causa degli idranti.Il fumo scuro si levava dalle carcasse delle macchine bruciate e imbrattate. Turisti stranieri si facevano fotografare davanti ai relitti. Una cartolina dell'Italia violenta è un ottimo souvenir. Tanto più che nei loro paesi non è accaduto nulla.
Gli incappucciati avevano spaccato le vetrine delle banche, delle gioiellerie e dei negozi. Pensavano di colpire i simboli del capitalismo. Ma, mio avviso, non sono preparati neanche su questo. Le firme e gli slogan usati come rivendicazione la dicono lunga sul loro conto. Stelle a cinque punte (Br), "A" di anarchia, e falci-martello sono apparse su muri e porte infrante. Hanno voluto tirar fuori dagli armadi degli anni di piombo degli spauracchi e disseminarli random sui muri della Capitale. Segno che questa gente non ha un'identità né un colore definito ma si nasconde dietro le effigi di passato, mai davvero passato, per giustificare la propria barbarie.
"No control"-"Sfruttatori". In questo modo si espressi i misteriosi incappucciati. Oserei dire roba da no global, ma sarebbe una nobilitazione del loro pensiero. Inizialmente ho pensato che fossero i soliti fascisti violenti che, di solito, picchiano gli studenti durante le manifestazioni. Poi ho compreso che sono peggiori di quelli di Forza Nuova. Si tratta di cialtroni che si servono di slogan dei quali non conoscono neanche il significato.
A me non sembra una violenza così organizzata come ho sentito dire in giro, quanto meno nelle idee e nelle motivazioni, credo sia sullo stesso piano delle peggiori tifoserie calcistiche. Non amo la dietrologia, ma vorrei capire perché solo la manifestazione italiana sia stata boicottata. Ci pensavo camminando in una via spettrale e maleodorante, Via Cavour. Drappelli di manifestanti con le bandiere ammainate ritornavano mesti verso casa. Su un marciapiede, in lacrime, ho intravisto la ragazza paffuta dal maglione bianco. L'allegro gruppo di toscani aveva il broncio. Chissà, forse, sono rimasti coinvolti in qualche tafferuglio. Questi ragazzi dalle facce pulite e sorridenti volevano rivendicare il diritto allo studio e al futuro e sono stati travolti da un'orda di barbari. La stazione Termini è avvolta in uno scuro drappo di tristezza. Sulla capitale è scesa la notte, nonostante tutto. Il sole è stato inghiottito dal fumo nero e ha lasciato il posto al gelo. Fa freddo.
Una marea umana assiepata lungo le banchine della metro discute di quanto accaduto. C'è chi racconta col terrore sul volto i fatti di Piazza San Giovanni. "I manifestanti pacifici si sono trovati tra la Polizia e i Black Bloc!", asserisce una ragazza bionda che porta uno zainetto sulle spalle. E spiega:"Siamo stati braccati anche noi, non potevamo muoverci, avevamo polizia da tutti i lati. Non c'erano vie di fuga". Ecco chi erano, i Black Bloc, penso. Eppure non ne sono molto convinta. Me li ricordo i Black Bloc a Genova, e quei ragazzini incappucciati non gli somigliavano affatto. Non so. Sapevano come muoversi in città. Conoscevano bene le vie d'accesso e di fuga. Se non erano organizzati sul piano ideologico quanto meno da un punto di vista strategico sono stati astuti, al contrario della Polizia che è apparsa, almeno a quanto ho potuto apprendere dalla radio, abbastanza impreparata e disorganizzata.
Quando arrivo a Tiburtina sono le 20 circa. I negozi stanno chiudendo. Macchine e autobus percorrono la strada illuminata dai neon. Vista da qui Roma è serena. Una serata autunnale come tante. La gente passeggia, qualcuno sale sull'autobus, qualcuno entra in un bar e il sabato sera scivola via. Ma basta accendere la televisione per capire che è solo apparenza. Per strada gli scontri continuano e, al di là della polemiche, a noi non resta che un pesante fardello di tristezza. Oggi vado a San Giovanni, poi scrivo.

domenica 2 ottobre 2011

Giù le mani dalle panchine!

La panchina che sia di legno, di ferro o di marmo, per me, è un rifugio. Uno spazio al di sopra di altri spazi. Il motore immobile che ti permette di percepire il movimento del mondo. La panchina è il luogo del silenzio, della contemplazione e del pensiero.

La scelta della panchina giusta non è semplice. Io, ad esempio, a Villa Torlonia, ho la mia panchina preferita. Quasi all'ingresso, al centro dello spiazzale ai piedi della gradinata. Questo è il mio eremo torloniano, qui ho letto i libri dei miei autori preferiti. E guai a chi osa muovere, anche solo di un centimetro, la mia panchina. Sono dell'avviso che le panchine siano come dei monumenti. Non si toccano. Non si imbrattano. Non si spostano. La panchina è nata per essere adotta, ma è anonima di per sé e non si deve adattare alle esigenze chi vi si siede, semmai il contrario.

Spostare una panchina è un atto di hybris, solo dei tracotanti posso macchiarsi di un peccato di tal fatta. "Sedendo e mirando, interminati spazi, al di là da quella, e sovrumani silenzi"... Leopardi, quando ha scritto l'Infinito, si sarà seduto su una panchina dalla quale era possibile vedere la famosa "siepe". Ora, mettiamo che Leopardi, come spesso accade, non avesse terminato il suo scritto in una sola giornata. Se, il giorno seguente, qualcuno si fosse permesso di spostare la panchina del Leopardi, trattandola come una sedia qualunque sulla spiaggia, e cioè l'avesse sottratta all'ombra per metterla al sole, secondo voi oggi avremmo potuto godere di quel capolavoro della letteratura che è L'Infinito? Secondo me, no. Perché lo sguardo di Leopardi sul mondo sarebbe mutato e la sua idea iniziale di certo sarebbe andata perduta. Neanche il protagonista del romanzo La Morte a Venezia che, tuttavia, sedeva su una sedia sul lido di Venezia, si è mai sognato di cambiare posizione per spiare il suo amato.

Sulle panchine nascono storie, racconti, poesie. Qui si svolge la prima fase del lavoro di uno scrittore: il furto di una vita. Si fanno incontri, amicizie e, a volte, può capitare anche di conoscere persone e apprendere vicende davvero molto interessanti. La panchina è luogo di isolamento e condivisione ma ha delle regole molto rigide che vanno rispettate. Altrimenti il miracolo dell'arte non si compie.

Spostare una panchina in un parco significa mutare gli equilibri di un mondo abitato solitamente da chi vuole sottrarsi al rumore del traffico e al via via delle strade, per dedicarsi alla contemplazione e riappropriarsi del kairos che, per i greci, è diverso dal kronos.
Il Kronos è il tempo misurato secondo la quantità, il kairos invece indica la qualità. E' il tempo giusto ed ha un valore inestimabile. Perché è il tempo in cui si attende che accada qualcosa, che avvenga magari un'epifania. Il kairos è il tempo della meraviglia.

Mi viene in mente la scena del film Miracolo a Milano in cui i due protagonisti si mettono seduti davanti al tramonto e si godono, a bocca aperta, lo spettacolo della natura come se fosse una piece teatrale. Magari sono stati seduti anche per poco, forse mezz'ora, ma quel tempo, in cui hanno provato emozioni forti, intense e hanno ammirato la bellezza, a loro è parso interminabile e lo ricorderanno per sempre. Penso, ancora, alla panchina del romanzo Caos Calmo sulla quale il protagonista ripercorre la sua vita e incontra, guardandole con occhi diversi, le persone che ne fanno parte. Rivedo nella mia mente la panchina di Villa Ada, dove è nata la narrativa dello scrittore Niccolò Ammaniti:"Negli anni del liceo ho passato un mucchio di pomeriggi seduto su una panchina di Villa Ada...Ma a Villa Ada ho conosciuto il Guzzini...Ho passato ore ad ascoltarlo" ( Prefazione di "Aspetta Primavera Bandini" di John Fante). Ma La mia panchina letteraria prediletta rimane quella che, nelle Notti Bianche di Dostoevskij, accoglie il sognatore e la sua adorata Nastenka.

La posizione di una panchina, la sua presenza in un determinato angolo di un parco o di una strada, è del tutto casuale e tale deve rimanere per poter incidere sulla nostra percezione. A Dublino, addirittura, ad una panchina è stato dedicato un monumento, perché su di essa era solito sedersi James Joyce insieme con suo figlio. In quel luogo e in quel preciso momento, per l'autore dell'Ulisse il tempo si cristallizzava. Esistevano solo lui e il suo amato figliolo. Nessuno poteva entrare in quello spazio privato delimitato da una panca qualunque.

Il tempo della panchina è il kairos. E'un tempo che non ha durata ma intensità. Non si misura con l'orologio. Ed è l'unico tempo che ci appartiene davvero. Il kairos è il tempo dilatato dell'anima che necessita di uno spazio fisso, privo di movimento. Perciò, tutti coloro i quali, nei parchi, nelle ville, nei giardini, nei luoghi pubblici, osano spostano arbitrariamente una panchina, sappiano che stanno violando le leggi più profonde del Cosmo.

(Su questo argomento consiglio la lettura di Beppe Sebaste: http://www.beppesebaste.com/articoli/sulle%20panchine.html).

mercoledì 28 settembre 2011

Campionesse di arrampicata col tacco....

Non ho mai amato le persone che, prima di uscire di casa, fanno un bagno di profumo. Per non parlare degli uomini amanti delle docce di dopobarba e deodoranti di vario genere. Tuttavia mi piace annusare le scie profumate per strada e indovinare a chi appartengano. Tanto più in città, dove la sopravvivenza dell'olezzo griffato è quasi un miracolo; lo smog sbaraglia la concorrenza. E, ieri, inseguendo profumi, mi sono imbattuta in un atleta.

Qualcuno mi è passato accanto. Un'onda di Dolce&Gabbana mi ha travolto inducendomi a cambiare rotta. Ho superato due ragazze, straniere, reduci dallo shopping in centro, e ho provato a tener dietro al profumo dolciastro, ma fortissimo, che mi ha riportato ai tempi del ginnasio; la mia insegnante di greco mi si è materializzata dinanzi in uno dei suoi tailleur bianchi e blu con le versioni tra le mani. Un rigurgito d'ansia e paura si è impadronito di me. Ma l'ho scacciato alzando il passo. E sono entrata in un'altra area profumata.

Una nuvola di deodorante delicato, fresco, mi ha avvolta. Ho abbassato lo sguardo e, davanti a me sono apparsi degli oggetti non ben identificati...Due blocchi di sughero adorni di plastica verniciata di verde. Sandali altissimi. Scatole di truciolato, ad occhi e croce anche abbastanza pesanti, che si muovevano rapidi sull'asfalto. E, in cima a questi bolidi della calzature, una donnina esile in jeans e canotta.
La ragazza, curva da un lato, forse a causa della borsa enorme appesa alla scapola sinistra, procedeva spedita. Non si è fermata un attimo. Anzi, ha doppiato persino un giovane uomo pelato in giacca e cravatta che, con la schiena dritta e la pancia in dentro, affrontava la salita come un alpinista consumato. Lui si guardava intorno pavoneggiandosi. Credeva di non avere rivali. Ma, quando la donna sui trampoli gli ha fatto masticare la polvere, si è voltato e ha fatto una smorfia di disappunto, quasi a dire:"Come osi sfidarmi, vermiciattolo spuntato dal nulla!". Poi, però, le ha guardato i piedi e ha biascicato un complimento.

Ho continuato seguirla. Mi sono avventurata in pericolosissimi slalom e dribbling tra borse, pacchi e valige sul ponte della Tiburtina. Odori sempre più acuti e sgradevoli si spiaccicavano sulle mie narici, ero affaticata, stanca e sudata ma andavo avanti. Volevo vedere fino a dove era in grado di condurmi la mia eroina ed ero curiosa di sapere chi avrebbe vinto quella maratona tra pedoni della Tiburtina.

L'uomo Dolce&Gabbana mi ha sfiorato un braccio, l'ho riconosciuto, ma non ho avuto il tempo di osservarlo, si è dileguato subito lasciandomi in balia della velocista sui trampoli e degli scarichi d'auto e moto. La velocista camminava impettita, sicura e baldanzosa. I suoi piedi, tavolette inermi laccate di rosso alle estremità, erano incollate ai due troni di legno. I capelli castani che le ricadevano sulle spalle non partecipavano al movimento del corpo. Ma lei era in testa. Stava vincendo e non aveva rivali. Nessun altro concorrente era riuscito a doppiarla fino a quel momento. Le ragazze con le buste erano lontanissime, l'uomo dolce&Gabbana aveva rinunciato a seguirci, il pelato incravattato si era fermato in un angolo a rosicare e io...Io ho cominciato a rallentare. Ma non l'ho persa d'occhio.
La maratoneta dalla chioma imbalsamata ha svoltato a destra. La gara era ormai finita. Aveva vinto. Ma non era soddisfatta. E, prima di salire sul podio, non ci ha risparmiato neanche l'ennesima umiliazione. Ha tirato fuori una scartoffia appallottolata dalla borsa e, con un calcio leggero ma preciso, l'ha spedita in un piccolo bidone dell'immondizia. Sono rimasta a bocca aperta mentre lei, sculettando sui suoi trampoli, è sparita dietro ad un palazzo stinto.

Leggendo questo post, qualcuno dirà:"Non è vero,si è inventata tutto, se l'è immaginato". No, cari miei. E'tutto vero. E'accaduto davvero! Non ho sognato di partecipare ad uno spot dei cereali Fitness Nestlé. Né stavano girando la reclame dell'Acqua Vita Snella sulla Tiburtina, la signorina era un'attrice e io, tonta, non me ne sono accorta. Vi sbagliate. Non è andata così. Non mi credete? Peggio per voi.
Io ho assistito, in diretta, e gratuitamente, all'ultima impresa della campionessa romana di arrampicata sul tacco. E questa è la cronaca (reale) dell'evento sportivo firmata da me.
Noi donne siamo capaci di compiere grandi imprese stando in bilico su un paio di tacchi altissimi. Niente ci può fermare!

lunedì 19 settembre 2011

The sound of silence

Percorro le strade che conosco da tempo. Sono sola e mi giro intorno alla ricerca di quella che ero, della ragazza che sono stata un tempo, e mi domando chi sono oggi. Attraverso la strada col rosso, perché il verde per i pedoni non scatta mai, e intorno a me scorgo molta gente a telefono. Mi specchio in loro. Mi sembra assai strano non essere anche io attaccata ad un cellulare. Come se non avessi più nulla da raccontare. Mi domando perché questa gente deve comunicare con gli altri ogni secondo della sua giornata. Cosa avranno sempre da dirsi tutti?
Non molto tempo fa avvertivo l'esigenza di narrare a voce a chi ritenevo speciale le mie scorribande romane. Poi ho capito che gli interlocutori prescelti erano speciali solo per me e forse non erano nemmeno interessati alle mie peripezie per le vie della Capitale.
Crescere vuol dire imparare a tacere. Centellinare i discorsi e le parole e scegliere i propri compagni di conversazione in maniera responsabile senza lasciarsi guidare dall'illusione. I nostri racconti non devono essere molesti ma benaccetti. Ogni narratore vorrebbe degli ascoltatori attenti ed entusiasti. E non solo cortesi ed educati. L'atteggiamento passivo e paziente, remissivo e poco reattivo, si riassume con la parola "sopportazione". Tolleriamo qualcosa che non ci piace solo per non dare un dispiacere all'altro. Non c'è cosa più umiliante che essere compatiti.
Se qualcuno, dunque, vorrà sapere cosa abbiamo da dire, chiamerà. E se il telefono non squilla? Pazienza, ci godremo il piacevole suono del silenzio, un tesoro che ciascuno di noi dovrebbe riscoprire giorno dopo giorno e custodire gelosamente.

domenica 18 settembre 2011

Rinascere

Ripartire. Rinascere. Ricominciare. Tutti verbi che indicano un nuovo inizio. Un'azione già compiuta in passato che si ripete. Prendere la valigia e partire. La meta è l'unica certezza che si ha, il resto lo lasciamo fare al fato. Ma è importante lasciarsi alle spalle il passato e preparasi a cambiare di nuovo, ancora una volta, in modo diverso, sperando che adesso vada meglio. Non mi sento una "coraggiosa" né un'eroina dei fumetti, ma solo una ragazza in cerca della felicità, tre anni fa pensavo di trovarla in Basilicata. Credevo che ritornare a casa, nella mia terra, fosse la scelta giusta. Ma adesso mi chiedo se io sia mai tornata davvero. Credo di no. Mi sono solo rifugiata nel passato. Ho fatto un salto indietro. Ho esplorato i luoghi della memoria.
La Basilicata era la mia Arcadia. Pensavo di ritrovare il piccolo mondo antico che avevo lasciato e, per certi versi, così è stato, ma per altri ho toccato con mano una realtà di cui avevo sentito raccontare e alla quale non credevo. "Dopo questa esperienza, sarai incattivita", mi disse il mio amico Paolo a maggio del 2008 davanti ad uno scoppiettante fuoco di ginestre. E, oggi, posso dire che aveva ragione, anche se forse correggerei il tiro: più che "incattivita" direi "agguerrita".
Le mie antenne sono più dritte che mai. Mi sono messa alla prova, ho lottato, ho provato a resistere, ad arginare la mia sconfinata curiosità che mi porta ad essere raminga, solitaria ed inquieta, ma non ci sono riuscita, o meglio, non fino in fondo. Sentivo che non poteva essere Potenza l'ultima stazione del mio viaggio. No, il treno sul quale ero salita aveva ancora molta strada da fare. Il capoluogo della mia regione, e il mio borgo natio, erano stati una tappa da rifare. Un ritorno quasi naturale per poter guardare con disincanto luoghi avvolti in una nebbia di nostalgia per un passato che non ritornerà, perché nelle storie non cambiano solo le vite dei personaggi ma anche gli scenari mutano, si modificano col passare del tempo. Ma in ciò che è stato si può ritrovare con più forza ciò che si è e, soprattutto, ciò che si vuole essere.
In questi tre anni mi sono specchiata nella specchiera di Barbie riposta nella mia soffitta ricolma di giochi, libri del liceo e ritagli di giornale. Ho camminato ancheggiando sui miei vecchi tacchi con una penna in mano e un codice penale in tasca (e ormai in testa). Sono stata dove volevo essere, in tribunale. Ho avuto gli insegnanti e l'insegnamenti che desideravo, non faccio nomi, ma sono i migliori. E mi reputo soddisfatta.
Non vado via con l'amaro in bocca, mi congedo assaporando dolci ricordi. Il mondo di affetti del cubo grigio di cemento, dove certi giorni non passano mai e il cielo terso e limpido ti sembra un miracolo che entra dalla finestra, mi mancherà. A cominciare dal proprietario della copisteria che ogni mattina mi ospitava nel suo parcheggio credendomi un avvocato ( e non ho mai osato contraddirlo) sino alle segretarie e agli impiegati della Procura e all'avvocato Laurita che, appena mi vedeva, mi informava sugli spostamenti dei miei colleghi all'interno del Palazzo.

Non so ancora cosa mi aspetta. Disfo la valigia e dico a me stessa che, di certo, dovrò cambiare di nuovo guardaroba, usare con parsimonia i tacchi, perché ci sarà di nuovo da camminare tanto (per la mia gioia), che finalmente potrò scegliere uno stile più personale, meno formale, che la mia vita sta per cambiare di nuovo e questa volta sono davvero sola ed è giusto che sia così, che devo imboccare una strada che sia una, che sto facendo le prove generali per la felicità, l'unico Messia di cui attendo la venuta, ma tutti quei signori e quelle signore là, avvocati, avvocatesse, praticanti, magistrati, ufficiali di pg, cancellieri, uscieri, imputati, colpevoli e innocenti, i loro parenti, anche quelli ingombranti, incensurati e delinquenti, pentiti ("infami") e sfingi silenti resteranno per sempre impressi nella mia mente. Fanno parte della mia vita, della mia storia e li porterò con me comunque vada, ovunque vada.

sabato 10 settembre 2011

Delete

La fine di un rapporto di amicizia nella vita reale coincide con la fine di una relazione nel mondo virtuale. Ormai funziona così. Sembra che i due mondi siano sovrapposti e in qualche modo inscindibili. Mi è capitato spesso di conoscere persone ad una festa o in una determinata occasione e di aggiungerle poi su facebook. Il secondo step della nostra conoscenza è avvenuto proprio attraverso il popolare social network. Un modo comodo e veloce, diciamo pure poco impegnativo, a volte, per approfondire una conoscenza. Scambio di link, di opinioni, frasi, articoli e canzoni. Sfoghi. Confidenze. Racconti ad un essere virtuale che in certe circostanze, quando si è soli e affranti e si ha bisogno di dialogare con qualcuno, può tornare assai utile. Quantomeno lo si sostituisce ad un amico reale. E, in assenza di occhi che frugano tra i pensieri, mani inquiete e voce tremolante, ci si vergogna meno delle proprie esternazioni. In fin dei conti non sono altro che frasi scritte su uno schermo di pc. Parole digitali alle quali, si pensa, verrà dato poco peso. Scorreranno veloci insieme con la serata appena trascorsa, a casa, ciascuno nella sua stanza davanti ad un pc. Insieme ma divisi dallo schermo, un filtro, un muro, un gap che, in certe amicizie, sembra incolmabile. Di fatti lo è se, per uno dei due, l'altro è scomodo. E, anche se a tratti si ha la sensazione di essere molto vicini, in seguito si scopre di essere quantomai distanti e si giunge alla conclusione che il mondo virtuale è una fabbrica di chimere ed illusioni almeno in fatto di relazioni. Ma procediamo per gradi.
Accade spesso che, conoscendosi sul web, quando ci si trova vis a vis si sia assolutamente in sintonia e un rapporto meramente virtuale si tramuti velocemente in una bellissima amicizia.
A me è successo circa un anno fa, quando sono uscita per la prima volta con una persona che avevo imparato a conoscere telematicamente. Mi incuriosiva molto, capita così di rado ultimamente che bisogna approfittarne subito, e io l'ho fatto. Non avevo nulla da perdere, il mio obiettivo era solo fare amicizia, conoscere un'altra persona. E così è stato.
Tra me e l'essere umano in questione c'è stata subito una bella sintonia. Certo, nonostante questo, non è stato affatto semplice essere accettati nella sua vita, entrare a far parte delle sue cose, guadagnarsi uno spazio "vero e sincero" all'interno della sua quotidianità. Peccato, però, che fosse uno spazio meramente virtuale. Perché i veri amici dell'essere umano suddetto erano altri e i fatti mi hanno dato ragione. Non sto qui a raccontare quale emozione ho provato quando il mio caro amico ha biascicato, per la prima volta, timidamente "un ti voglio bene" per telefono; lo ammetto avevo il cuore in gola e non mi capitava da tempo. Ma quella scena, rivista adesso,a rallentatore, mi sembra una stupida illusione. "Era tutto finto", mi ripeto, o forse, allora, era vero ma, ora, non lo è più. Chissà.
Non sto qui, ancora, a ricordare tutte le scemenze fatte insieme, le risate, le serate trascorse a chiacchiere, i pomeriggi a progettare, pensare, ideare, le ultime ciarle fiume in notturna, i pianti, gli abbracci, le paroline dolci e le promesse alle quali, forse, non ho mai creduto davvero e, ora, mi dico: "Per fortuna".
Non mi piace elencare tutti i momenti della costruzione di una presunta amicizia importante ma lo sto facendo e, ripercorrendo le varie tappe di questa odissea, mi domando se la collana d' oro che pensavo di avere in mano non fosse soltanto uno squallido ciondolo di bigiotteria, visto che l'amico ideale mi ha fortemente deluso. La persona alla quale mi ero legata oltre misura tanto da essere quasi gelosa mi ha messa da parte come una chitarra scordata, una bambola rotta, un Sapientino vecchio e petulante. Mi ha voltato le spalle, o meglio, ha tramato alle mie spalle, in silenzio, fingendo essermi ancora amico, di essere dalla mia parte. Ma io che lo conosco meglio di chiunque altro e sono in grado di immaginare le sue espressioni e le sue frasi, so bene quali pensieri, quali meschinità e quali parole astiose e cattive mi ha destinato in questi mesi di silenzio. Io So quali epiteti spregiativi sono stati accostati al mio nome. E questa consapevolezza mi fa più male di ogni altra cosa. Avrei preferito un insulto diretto, un dileggio urlato in faccia, una secchiata d'acqua, piuttosto che una trama ordita in sordina servita con i guanti bianchi in piatti lucidi come specchi argentei.
Dunque mi è toccato correre ai ripari e attuare la soluzione finale. In una parola: cancellare. Come? Tramite i social network. Ti elimino dalla mia vita togliendoti dai mie collegamenti. Estromettendoti da tutto ciò che concerne me, i mie interessi, le mie passioni. Qual è la funzione cardine di un social? La condivisione, che poi è alla base di ogni amicizia.
Cancellare qualcuno dai propri amici virtuali vuole dire non avere più nulla da dividere con quella persona. Sottotesto: non voglio più mettere in comune nulla con te. Non ti voglio nel mio mondo, nella mia koinè. Sei fuori. Trattamento da riservare solo ai traditori.
Quando l'ho subito, in fondo, non l'ho accettato. Mi sono ribellata a modo mio. Non mi sono arresa, mi sono difesa. Sono una guerriera e penso che se vogliamo possiamo cambiare ciò che non ci piace. Non sono pavida, lotto fino alla fine, se tengo a qualcuno o a qualcosa.
Da epuratrice, invece, non ho ottenuto le stesse risposte. L'ostracizzato si è limitato a richiedere l'amicizia su fb, come se fosse l'unico social esistente, e poi stop.
Ma Faccialibro è solo la piazza virtuale più in vista e più frequentata dai "contatti" in comune, ai quali non vuoi far vedere o far capire, è una questione di apparenza, di status simbol, concetti lontani anni luce dall'amicizia. Ergo, anche se a malincuore, credo di aver fatto bene.
Fuori dalla mia vita virtuale chi non è mai di fatto entrato nella mia vita reale e mi ha tenuta ai margini della sua. Delete.

mercoledì 7 settembre 2011

Padre Brand

Sin da bambina consideravo i santi delle simpatiche figurine con le quali giocare. Mia zia Vittorina, anche detta "Zizia", aveva una collezione molto nutrita di santini. Da Santa Lucia a San Rocco, dalla Madonna di Pignola fino alla Madonna Nera e al Sacro Cuore di Gesù...C'erano davvero tutti, persino lui, il santo di Pietralcina. Padre Pio era diventato famoso per le stimmate: piaghe che aveva in comune con Gesù. Insomma Padre Pio sulle mani aveva le stesse ferite del Cristo. Certo la Chiesa non gli credeva. I suoi confratelli raccontavano che di notte Padre Pio lottava con il diavolo. I fraticelli giuravano di aver sentito provenire dalla sua cella urla disumane. Di certo frate Pio non avrebbe gridato in quel modo se gli fosse caduto un calcinaccio in testa, o peggio, se deambulando nella sua cella avesse urtato la scrivania o una seggiola di legno, questo, credo, avranno pensato i suoi confratelli. La causa di quelle urla era inequivocabile: Satana in persona stava tentando Padre Pio che, oltre alle stimmate, si era meritato anche lo stesso trattamento riservato al figlio di dio nel deserto. "Che culo 'sto Padre Pio", dicevo tra me e me mentre mia zia ne decantava le gesta eroiche e mia madre si affaticava a ripetere che lei aveva assistito ad una delle sue ultime messe. "La Chiesa era gremita di gente, lui celebrava alle 5 del mattino!", seguitava, instancabile, mia madre. "Fortunatissimo", dicevo io alla mia bambola e intanto infilzavo le orbite di santa Lucia con una forcina di ZiZia.
La schiera di santi disposta in fila ordinata sul comò di mia zia con al centro la boccetta a forma di Madonna di Lourdes- proveniente da Lourdes, contenente acqua stantia benché miracolosa di Lourdes- cominciò ad ingenerare in me qualche confusione. Posto che San Rocco fosse il santo animalista e Santa Lucia una sorta di Parca versione cristiana fra l'horror e lo splatter, gli altri mi apparivano tutti piuttosto simili. Così arrivai a confondere Padre Pio con Frate Indovino e un giorno, smarrita davanti ad uno strano calendario appeso al muro della cantina, chiesi a mia zia:"Ma adesso c'è anche il calendario di Padre Pio?". Bestemmia. Blasfemia. Non l'avessi mai detto. Mia zia levò un dito al cielo e la sua figura crebbe sino al soffitto. Zizia era una vecchina piccola e incartapecorita con i capelli sale e pepe raccolti sulla nuca ma in quel momento mi appariva enorme. Si era tramutata nella statua della Minerva e mi guardava dall'alto della sua sapienza da Agiografa. I suoi occhi "ghianghi" (tradotto: bianchi ovvero celeste acquerello) mi fissavano severi. "Quello è Frate Indovino, figliò! Chi dì? Mica tiene le mani imbasciate?", disse piccata. Caspita, è vero. Le stimmate! Avevo commesso un errore imperdonabile e mia zia si sentì ferita nel suo animo di educatrice religiosa.
A ben guardare in effetti Padre Pio e Frane Indovino non si assomigliavano molti, l'uno era una specie di Mago Otelma della Chiesa l'altro Paolo Fox Ave Maria...Ma vabbè...Capita. Da allora, però, feci più attenzione alle apparizioni del frate di Pietralcina nella mia vita.
Di pomeriggio, insieme con mia nonna, mi sciroppavo tutte le trasmissioni sui misteri e i casi di cronaca nera italiani. Tra ricostruzioni di delitti e Madonne dal volto insanguinato, di tanto in tanto, veniva fuori l'ultimo miracolo profumato del solito Padre Pio, quello che faceva Wrestling con il Diavolo (chissà se l'ha mai preso per le corna?Mah... Misteri della fede, è proprio il caso di dirlo!). Tutti i "miracolati" del frate dalle mani fasciate sostenevano di aver sentito un forte olezzo di violette-orchidee o fiori viola, il frate evidentemente usava "Glad lavander an violet" molto efficace contro i cattivi odori. Ma nessun redivivo se l'è chiesto almeno fino a che non è arrivato il tempo della beatificazione.
La Chiesa che crede solo ai soldi e mai ai santi o ai criminali interni (preti pedofili), osteggiava in ogni modo Padre Pio. Ma poi deve aver capito che il santo era una inesauribile fonte di guadagno.
Si narra, infatti, che, prima di decidere se inserire o meno la candidatura di Padre Pio tra quelle che continuano il processo di selezione per la beatificazione, l'amministratore delegato della Holding Chiesa S.p.a abbia incaricato l'ufficio marketing di testare il prodotto su alcuni consumatori. L'esperimento è stato condotto anche attraverso i potenti mezzi di comunicazione vaticani da Radio Maria al Tg1. E il responso è stato unanime:"Padre Pio spacca!". Finanche nelle carceri.
Leggenda: RUM: responsabile ufficio marketing. Ad: amministratore delegato.
Dialogo tra il responsabile dell'ufficio marketing e l'ad della Holding giallo-bianca. RUm:"L'indice di gradimento di Padre Pio è pari al 100%. Tutti i nostri consumatori dichiarano di adorare i prodotti con la sua effige. Basta nominarlo per avere versamenti e offerte. Persino l'otto per mille viene versato con più zelo se c'è mister San Giovanni Rotondo di mezzo! Solo Papa Giovanni Paolo II aveva dato questi risultati prima d'ora". Ad:"Senta, e i pellegrinaggi?". RUM:"San Giovanni Rotondo è seconda solo a Lourdes. L'opera romana pellegrinaggi è entusiasta, ha già predisposto nuovi autobus!". Ad:"Perfetto!". RUM:"Ah, un'altra cosa. C'è da registrare un dato non marginale". Ad:"Quale, mi dica?". RUM:"Anche i criminali lo apprezzano molto. Un boss della camorra ha già ordinato 4 statue in gesso del frate e dice che se lo faranno santo ne vuole altre da regalare ai suoi 'cumparielli'..". Ad:"Sì, ma questo se lo tenga per sé. Insomma noi siamo contro la criminalità, cioè nel senso, la nostra strategia di comunicazione prevede questo. Mi raccomando, non si faccia scappare l'informazione con nessuno. Comunque faccia recapitare al contribuente le statue e ne prepari 3 per il dottor Luciano Moggi e Callisto Tanzi. Mi raccomando, solo le migliori!". RUm:"Certo, certo".
Come previsto, la beatificazione, avvenuta il 16 giugno del 2002, fece il pienone. Piazza San Pietro era gremita. Nonostante il caldo e la voce tremolante di Papa Wojtyla la folla accorsa da ogni dove era entusiasta. E, in quell'occasione, il merchandaising di Padre Pio travalicò il confini del Sud Italia e prese ad essere distribuito anche al centro. Comparvero per la prima volta delle bottigliette con l'immaginetta del Santo.
"Acqua di Padre Pio", gracchiava un ambulante napoletano sventolando una bottiglietta blu sotto il mio naso. Io ero in gita col collegio. In piedi sotto il sole caldo di un torrido giugno romano mi interrogavo sul destino del quasi-santo di Pietrelcina. A giudicare dal bagno di folla, Padre Pio prometteva bene. I presupposti per diventare una rock star c'erano tutti, ma anche quelli per essere il brand più forte della Holding Chiesa, roba che il Babbo Natale della Coca Cola a confronto è un principiante. Le suore liquefatte nei loro abiti di cotone bianco sorridevano ed io, stretta nel mio fazzoletto di stoffa rossa che mi ricadeva a triangolo sull'addome, giurai odio profondo al beato rockenroll.
"Ma mica è colpa di Padre Pio, se ne hanno fatto un commercio!". Mia madre provava ad arringare in favore del Santo, difendendolo dalle mie accuse. "Prima che arrivasse lui in chiesa non si era mai vista un cassetta di offerte accanto ad una statua. Vicino alla sua non solo c'è la casetta, ma è indicata anche la cifra da inserire per far sì che si accenda la luce. 1 euro!!Capito? Ladro!", replicavo io battendo i pugni sul tavolo e procacciandomi il favore della fazione anticlericale della mia famiglia.
Zizia mi guardava di sottecchi da una foto a colori. Se fosse stata presente mi sarebbe saltata addosso e mi avrebbe graffiato la faccia. "Nipote degenere", deve aver pensato mentre in cielo si rifaceva le trecce e spettegolava con Santa Lucia. "Tu a quelli non li vedi. Ma m nvod s'è fatta inzollente assai!". Santa Lucia, memore delle mie angherie, annuiva rancorosa e, in segno di approvazione, sollevava il piattino contenente gli occhi e lo puntava (dall'alto) verso di me, per rinvenire sul mio volto i segni della devianza. "Giovani di oggi, Vittorina. Non hanno rispetto nemmeno per i santi", diceva a mia zia la Santa orba.
Ma non era tutto. Ad accrescere la mia antipatia nei confronti del beato di Pietralcina che, intanto era stato fatto santo, contribuì un'altra apparizione assai strana nella mia vita.
I due dipendenti della Chiesa S.p.A dovevano essersi sbagliati o forse anche nella criminalità si era sparsa voce del talento del santo campano. Fatto sta che persino la mafia calabrese era stata contagiata dal "fenomeno di Padre Pio". Tutta colpa di Radio Maria, pensai quando vidi nel cortile di un affilato ad una 'ndrina di Isola capo Rizzuto una statua enorme del frate con le stimmate.
Il boss era religiosissimo. Rosari e madonne sbucavano da ogni dove. Aveva i santini persino nei pantaloni. Affidandosi ai santi forse pensava di ritardare la sua morte. Sulla sua testa pendeva una condanna in terzo grado emessa dal Tribunale della Mafia. Aveva commesso un delitto, doveva pagare. E i mafiosi non fanno sconti a nessuno, nemmeno per intercessione di santi e madonne. Il delinquente calabrese, però, voleva provarci lo stesso. Ma accettava nel suo tempio solo i migliori, i più affidabili, miracolisti infallibili. Poteva mai mancare, dunque, il brand più forte della Chiesa italiana, il cavallo di razza dei santi, lo sfornamiracoli per antonomasia, San Pio da Pietrelcina? Eh, no. Perciò eccolo qui sul podio, al centro del giardino adibito a tempio, circondato da due aiuole fiorite. Non aveva nemmeno bisogno del solito deodorante segnala-miracoli. I fiori facevano bene il loro mestiere e il boss si augurava che, a forza di prostrarsi, sarebbe riuscito a strappare al santo una piccola grazia.
Padre Pio, Padre Pio, avrei voluto ignorarlo ma me lo trovavo in ogni dove. In Chiesa, ci stava. Quando smisi di frequentarla, però, pensavo che non l'avrei più visto. Che si sarebbe dimenticato di me. Che lui, le sue stimmate, il suo olezzo, i suoi miracoli e la sua storia mi avrebbero lasciato in pace. E invece no. Me lo ritrovo sempre tra i piedi. Sbuca da un ex voto, in un vicolo, sul vetro di un auto, allo stadio, nella casetta della posta, sui calendari appesi ai muri delle persone anziane.
Mia nonna ci aveva regalato una sua statuetta fluorescente. Mia madre l'aveva riposta in un angolo nascosto della mia libreria. Al buio diventava verde e, una volta, aprendo l'anta centrale del mobile, trasecolai e caccia un urlo. Qualche giorno dopo, nottetempo, mi armai di coraggio, riaprii lo sportello della libreria e mi infilai la statuetta sotto la giacca. Sgattaiolai fuori di casa furtivamente e, dopo essermi assicurata che non vi fosse nessuno in giro, lanciai Padre Pio nel bidone dell'immondizia. Lo vidi annaspare tra una buccia di banana e un assorbente Lines Seta Notte. Avevo ottenuto la mia rivincita. Credevo di essermi definitivamente liberata di lui. Ma, da qualche tempo, ho compreso che è praticamente impossibile.
Dovunque io vada me lo ritrovo tra i piedi. Anche nei luoghi di culto che non sono di sua pertinenza. Oramai manca solo che lo pubblicizzino in televisione, tipo il "Prez" il rosario elettronico che, puta caso- rarissimo caso, pressoché impossibile, diciamo pure irrealizzabile visto che l'Ave Maria non conosce confini si sente anche sottoterra e in alta montagna dove gli stambecchi cantano l'Alleluia- Radio Maria non prenda, ti aiuta a non saltare le corone. Padre Pio è una persecuzione. Mi osserva, mi tiene d'occhio e mi ricorda con la sua presenza ossessiva che esiste, è nella mia vita, è imprescindibile, pur volendo non posso liberarmene. E'come Carlo Conti e Antonella Cleici messi insieme, i sorrisi stereotipati dei bambini dell'Antoniano a novembre e il cinepanettone con la velina a dicembre. Il gioco dei pacchi alle 8. Yara, Meredith e Sarah Scazzi. Padre Pio è come Brook di "Biutiful"; le altre muoiono e a volte resuscitano. Ma lei no. Lei rimane. Perché, parafrasando Megan Gale (una che al contrario dei tormentoni ever green è sparita subito, dopo aver occupato a lungo i nostri teleschermi con le sue imprese da Wonder Woman)in uno spot della Omnitel, "Tutto ruota intorno a lei". E, anche per la Chiesa, visti i fatturati, tutto ruota intorno al... Mc Donald di San Giovanni Rotondo!