mercoledì 12 dicembre 2012

A che ora è la fine del mondo?

I Maya avevano predetto che oggi sarebbe finito il mondo. Il 12-12-2012 non si sa bene chi e non si sa come (o perlomeno io non lo so, perché non credo all'escatologia)avrebbe dovuto porre termine alla vita su questa terra. Per mia nonna ogni catastrofe naturale preannuncia la fine del mondo. Ogni qual volta si verifica un terremoto o un nubifragio, nonna, rassegnata, sospira:"E'arrivata la fine del mondo". Ma per fortuna, finora, la sua nefasta previsione non si è mai avverata. E oggi, oltre a lei, hanno fallito anche i Maya. Non so se dire per fortuna o purtroppo, per quanto mi riguarda direi per fortuna perché in fondo sono curiosa di sapere come va a finire il romanzo della mia vita e vorrei davvero essere io a poterlo scrivere. In ogni caso io la mia valigia l'avevo preparata. Pensando, ingenuamente, che la fine di un mondo implicasse uno spostamento verso un altro. Qualche testimone di Geova mi avrebbe corretto dicendo che alla fine si sarebbero salvati solo loro e quindi, non essendo un'adepta, io non avrei avuto accesso all'Arca di Noè. Io avrei risposto che la loro arca è il Titanic, e che quindi, no grazie non ci salgo che la fine di Di Caprio proprio non la voglio fare. I cristiani mi avrebbero invitato a leggere l'apocalisse ed io avrei replicato che i Fantasy non mi entusiasmano, che dopo il Signore degli Anelli ho smesso di drogarmi e i viaggi verso la Terra di Mezzo si sono interrotti bruscamente...Potrei continuare all'infinito ma mi fermo qui, e ritorno alla mia valigia e al mio viaggio saltato. Ci avevo messo dentro tutto ciò che è stato per me questo mondo in trent'anni di vita, sin dal primo vagito emesso in ritardo- mi dicono- perché ero troppo occupata a guardarmi intorno. Volevo capire dove fossi capitata. E, quando mi sono fatta un'idea dell'ambiente in cui mi era toccato di nascere, ho strillato. In fin dei conti questa terra non era male. Tutto mi appariva colorato. Ma non è certo il "dì natale" che avrei portato con me. Nella mia valigia c'erano libri, pianti, baci, abbracci e un mucchio di penne. Nella mia valigia c'erano la fossetta di una persona, quella più importante. C'era la neve, la calza della befana e la Befana (Stefania). C'era la mia amica Sara e con lei c'erano tutti quelli che mi hanno accompagnato nel viaggio precedente, soprattutto coloro i quali mi accompagnano da sempre. La mia valigia, però, rischiava di essere pesante a causa delle assenze e, proprio mentre la disfacevo e pensavo a cosa avrei dovuto conservare, una voce dal passato mi è venuta a visitare. Era lei,l'assente, sotto altre sembianze. Non stavo parlando a telefono con lei, perché non potrei, ma con la voce di chi l'ha generata mi ha suggerito il bagaglio necessario per proseguire il cammino intrapreso. "Sii paziente", mi ha sussurrato, come solo lei sapeva fare dopo aver ascoltato. E io ho pensato che a volte, per poter andare avanti, bisogna guardasi indietro e ricordasi di chi avrebbe voluto essere con noi ma non ha potuto, e ho accettato di buon grado il suo consiglio, ripiegando all'interno del mio bagaglio la virtù dei forti.

giovedì 25 ottobre 2012

Il diritto alla LAVATRICE

Era tanto tempo che non leggevo la traccia di un tema di italiano. A dire la verità non ricordavo neanche come fosse. Mi sembrano così lontani i tempi della scuola, la mia scuola, ormai una sorta di luogo onirico esistente sono in qualche film o, appunto, nei miei sogni. Senza scomodare la sindrome dell'epoca d'oro, nonostante tutto, potrei dire il periodo migliore della mia vita. Ma le tracce dei temi, eccetto qualcuna, non le ricordo. Ma, oggi, in una classe di un liceo di provincia, proprio come quello che ho frequentato io, un'insegnante ha chiesto agli alunni di parlare dei loro progetti per il futuro. Non so, se le mie mitiche insegnati, al ginnasio o al liceo, mi abbiano mai inviata a riflettere sullo stesso argomento. Al ginnasio, forse, non erano ancora molto chiari i miei traguardi; vivevo in una sorta di limbo, sapevo che volevo scrivere, ma ero distratta da altro. Pensavo a risolvere i problemi che mi si presentavano giorno dopo giorno, e non erano pochi, a studiare e ad avvicinare il ragazzo che mi piaceva ma che, naturalmente, non mi degnava di uno sguardo, e al resto della mia vita: l'azione cattolica e i miei amici, che poi erano di certo la parte più importante ed impegnativa di questo strano romanzo. Se mi avessero chiesto cosa volevo fare da grande, al ginnasio, forse non avrei saputo rispondere. Magari avrei detto soltanto che volevo andare a vivere a Torino. I sogni di gloria e l'amore incondizionato per la Capitale sono venuti dopo, man mano che mi sono riappropriata di me stessa, anche se tra elementari e medie avevo già collezionato una lunga serie di figuracce(a mio avviso) a causa dei miei temi d'italiano. Per l'autore, soprattutto a quell'età, non è affatto gratificante leggere ad alta voce i propri scritti, in classi diverse dalla propria per giunta. Ti accorgi, ad un tratto, di essere entrato nei pensieri dei tuoi compagni, immagini che ciascuno di loro abbia qualcos'altro per la testa, mentre tu ti inventi una virgola in più perché sei in debito d'ossigeno, ma scopri con grande rammarico che ti stanno ascoltando tutti con grande attenzione ed interesse e tutti, all'unisono, stanno pensando pressapoco la stessa cosa: "Ma tua vedi a 'sta secchiona". Terribile. Tu vorresti ingoiare il tuo compito e uccidere la tua insegnante pur di non sopportare quella tortura; la voce si incrina, la fronte si imperla di sudore e dall'ultimo banco si leva un riso sardonico poco rassicurante. L'umiliazione è la prova più dura per un adolescente che reagisce fuggendo. Eppure, contrariamente alle mie previsioni, avevo anche qualche ammiratore. Il loro sostegno mi ha invogliato a continuare, ad avere fiducia nei miei mezzi e arrivare a pensare, in primo liceo, di poter pubblicare su Repubblica e lavorare con Santoro. Film. Fantastiche pellicole la cui sceneggiatura è stata completata, in terzo, con ulteriori avvincenti sviluppi: la scrittura narrativa. Libri, viaggi, vita da intellettuale. In Capitale, è chiaro. Ma se mi avessero chiesto a 35 anni come mi immaginavo, non so se sarei stata capace di rispondere. Sono certa, però, che sarei stata ottimista, almeno per il lavoro, perché dipendeva da me, da brava formichina sognatrice. E ora? Se dovessi farlo adesso questo tema, ora che la scuola in teoria è finita, e che dovrei aver realizzato almeno qualcuno dei miei progetti, cosa ne verrebbe fuori? Sarebbe la descrizione di un labirinto, o meglio, di una selva oscura in cui la diritta via era smarrita e al posto del leone, della lupa della lonza, ci sono la Precarietà, la Disoccupazione e il Bunga bunga. E lo stato d'animo è quello di chi ha collezionato "esperienze", pubblicazioni e titoli, ma si trova in un vicolo cieco e non sa da dove cominciare a costruire, sul serio, la propria felicità, che implica la possibilità di lavorare laddove hai scelto di vivere, fare progetti con la persona che ami, comperare una stramaledetta casa, un divano, qualche libro, la cucina e una lavatrice. La lavatrice. Mi incanto a guardarle inutilmente all'Euronics. E'stupido, ma a volte, oggi, a trent'anni mi scopro a sognare di possederne una e di riempirla di panni sporchi, le camice del mio compagno, che io stessa, abbracciandolo, ho imbrattato di trucco, la maglietta sporca di latte di un bambino e il mio grembiule macchiato di sugo e cioccolato. La lavatrice è il titolo del mio nuovo film, La lavatrice potrebbe essere il titolo di un racconto ancora da scrivere, e da completare (mi auguro), oppure una canzone del mio amico Jacopo Ratini, e magari potremmo suggerirla come slogan anche a qualche politico, se invece di cianciare di riforma elettorale e riscaldamento globale, volesse fornirci una soluzione. Signor VendolaRenziBersani, SignoraPuppato, e tutti voi che mi volete votante alle primarie, mi dite come posso fare, a trent'anni, a comperare una lavatrice col mio primo "stipendio" se non sono un medico, non sono la figlia della Fornero, e non mi prostituisco? Ah, dimenticavo: non ho nessuna intenzione di essere choosy, mi accontento anche di una Candy di seconda mano.

martedì 23 ottobre 2012

Carmela poteva essere salvata

Carmela aveva 17 anni ed è morta per mano di uno stalker. Samuele da mesi perseguitava la sua ex fidanzata, Lucia Petrucci, la sorella di Carmela. I due si erano lasciati. Ma lui, Samuele, che su facebook (lo sappiamo tutti ormai) si faceva chiamare "Tigrotto", non si dava pace. Era ossessionato dalla gelosia. Immaginava, congetturava e si comportava come se Lucia fosse una sua proprietà. Un oggetto di cui disporre a proprio piacimento da vessare, ingiuriare e intimorire. Il fine? Evitare che lei si innamorasse ancora. Che donasse il suo cuore ad un altro, un ragazzo che sapesse amarla e, soprattutto, rispettarla. Samuele, raccontano le cronache, destinava a Lucia diversi messaggi, sms pare. In uno di questi, qualche giorno fa, era arrivato addirittura a scriverle:"Cenere sei e cenere ritornerai". Una minaccia di morte abbastanza esplicita. Lucia, spaventata e atterrita dal comportamento folle del suo ex fidanzato, si era rivolta ai carabinieri. Aveva dichiarato di essere perseguitata da Samuele via sms, e loro per tutta risposta cosa le hanno consigliato? Di cambiare numero di telefono. E la legge sullo stalking? Non era forse questo un caso di "atti persecutori", articolo 612 bis del codice penale? C'erano gli estremi per una denuncia, visto che la condotta di Samuele, per dirla in termini giuridici, era reiterata. Ovvero il ragazzo da tempo perseguitava la sua fidanzata, le rendeva la vita impossibile tanto da causarle uno stato di ansia. Se i carabinieri avessero fatto il loro dovere, se avessero invitato Lucia a sporgere denuncia per stalking, forse le cose sarebbero andate diversamente. Innanzitutto Samuele sarebbe stato diffidato dall'avvicinarsi a Lucia, certo magari l'avrebbe fatto lo stesso, ma in ogni caso qualche precauzione in più per la ragazza poteva essere presa. Adesso, però, l'unico colpevole della strage è il ragazzo, assassino reo confesso. Lui ha ucciso Carmela, che ha fatto da scudo alla sorella, ha ferito Lucia e si spera, anche se a ben guardare altri casi(Luca Delfino ad esempio) non c'è da essere ottimisti, verrà punito in maniera adeguata, ma chi avrebbe potuto evitare tutto questo invece non subirà alcuna conseguenza, resterà nella propria caserma e, un domani, magari, di fronte alle lamentele di un'altra presunta vittima di stalnikg, esclamerà con aria di sufficienza:"Le basta cambiare il numero di telefono, e lui non le darà più fastidio". C'è da stare tranquilli quando chi dovrebbe tutelarci non lo fa? C'è da tacere di fronte al lassismo delle forze dell'ordine? No. I carabinieri in questione andrebbero quantomeno denunciati per "omissione in atti d'ufficio". Quest'anno in Italia sono state uccise 105 donne per mano di altrettanti uomini. Lo scorso anno 127. Il legislatore ha fatto qualcosa per proteggere le fasce deboli della società. Sono stati inseriti dei nuovi reati nel codice penale. Ma se chi dovrebbe far applicare le leggi nicchia, se chi dovrebbe difendere i cittadini sonnecchia, noi dobbiamo stare allerta e pretendere che chi ha sbagliato, chi non ha fatto tutto ciò che era in suo potere, si assuma le sue responsabilità e paghi. Perché con la sua omissione si è reso complice di un omicidio!

mercoledì 17 ottobre 2012

Poesia: Ora d'aria

Vetro smerigliato in cui si riflette un cielo azzurro battuto da cavalli sbuffanti, il mio lago d'autunno è taciturno. Neri tuffetti rincorrono tipiedi raggi di sole. Il crepuscolo reca con sé un altro colore, il verde lascia passare il marrone; rovi ardenti occhieggiano ai piedi di monti sapienti che, in circolo osservano le evoluzioni del vento. Il mio lago d'autunno è trastullo e rifugio, dolce passeggio per il precario prigioniero del NonLavoro.

mercoledì 3 ottobre 2012

L'essenziale è invisibile agli occhi

Sia nella vita che in televisione, alcune donne adulte non reggono il confronto con le trentenni. Mi riferisco ad una categoria ben precisa di signore: le donne tupperwere, modello diva trash. Ultraquarantenni in carriera che ostentano con una certa aggressività e cafoneria la loro presunta emancipazione. Signore che vestono firmate dalla testa ai piedi che spendono miliardi in borse pacchiane e scarpe dai tacchi vertiginosi. Donne egocentriche, esperte nel calamitare l'attenzione altrui e riempire lo spazio che inondano con le loro fastidiose voci civettuole dal volume sempre e comunque alto. Non sia mai che a qualcuno sfugga un particolare delle loro faccende mondane. Pagliacci dai modi discutibili. Ricoperte di fondotinta e lustrini ad ogni ora del giorno, dispensano consigli sul come accalappiare il miglior partito di turno. Donne ossessionate dalla posizione e dal tempo che avanza. Adepte del trucco eccessivo e del dio botulino. Donne intrappolate in abiti e jeans stretti, tirate, impastate, artefatte, costruite. Donne di plastica, appunto. Le madonne avvizzite non sopravvivono in assenza di competizione. E ogni occasione è buona per scaricare sugli altri anni di ansie, cattiverie e frustrazioni ed infliggere ai malcapitati le più turpi umiliazioni. Tali gentildame sono solite, altresì, mettere in difficoltà le colleghe più giovani. Un esempio? Simona Ventura vs Arisa. La Ventura appartiene alla categoria della matrona cafonal appena descritta. Eccessiva in tutto. Sguaiata, appariscente ed esagerata, SuperSimo è rimasta folgorata sulla via di Sanremo dal candore lucano di Arisa e l'ha voluta con sé ad X Factor. Forse credeva che la cantante se ne stesse zitta zitta in un cantuccio. Che mostrasse riverenza nei confronti della conduttrice o che potesse disporne a suo piacimento. Ma Arisa non si è lasciata intimorire e, durante le selezioni di quest'anno, ha impartito una lezione di vita a donna Simona. La sfavillante conduttrice non capisce una cippalippa di niente, eccetto che di televisione. Non ha alcuna competenza né tantomeno possiede un adeguato bagaglio culturale. Ma, per fortuna, nostra signora dell'Ignoranza si contorna di giudici competenti. Elio, Arisa e Morgan. Gli ultimi due artisti puri che, spesso, scelgono talenti non condivisi dalla matrona. Nel corso delle selezioni è accaduto spesso che la Ventura, com'è suo costume, infierisse su coloro i quali non le erano piaciuti con frasi populiste e qualunquiste. Roba del tipo:"Crederci sempre arrendersi mai". Lo slogan idiota che strillava al termine di ogni puntata dell'Isola dei Famosi. Insomma, già visto. Se non fosse che adesso non è più la regina incontrastata dello schermo e che accanto a lei ci sono persone sensibili e pensanti. Vedi Arisa. I fatti sono i seguenti. Davanti ai giudici si presenta una ragazza abbigliata da Pin Up, molto convinta delle sue doti canore e non solo. La concorrente si mette subito in mostra per la sfacciataggine con cui si muove sul palco, certa di essere la migliore. Ma stona. Sbaglia tutto. E, secondo Morgan e Simona, "ammicca". L'ex bluvertigo esprime il suo parere e si ferma. Simona, acida, prende ad inveire contro l'aspirante show girl..."Tu ammicchi, non mi sei piaciuta, in questo paese siamo stanchi di gente che ammicca..." E così via. Se Arisa non l'avesse stoppata chissà cos'altro sarebbe venuto fuori da quelle fauci di cagna inferocita. Rosalba ha redarguito la navigata signora della tv, più che quarantenne mamma di due figli, pluripremiata e osannata,facendole notare che ai candidati basta una risposta negativa per desistere, non c'è bisogno di umiliarli e mortificarli. Chi viene dalla gavetta, come Arisa, sa bene quanto pesino le umiliazioni e le cattiverie gratuite. La matrona, da gran cafona immatura qual è, però, invece di mettere la coda tra le gambe e tacere, si è scagliata contro la cantante lucana dandole della "demagoga"- ognuno legge i fatti secondo le proprie categorie che, in tal caso, sono ben lungi da quelle kantiane- e facendole il verso. Non basta, per farle pagare l'offesa subita, il grave atto di lesa maestà, la Ventura ha preso a rimbeccarla, a scimmiottarla, e a contraddirla solo per il gusto di farlo. A porre fine alla futile querelle è stata la stessa Arisa che, per il bene del programma e della selezione, ha teso la mano all'anziana collega alla quale il botox deve aver dato alla testa. Rosalba ha riportato la pace nello studio dimostrando ancora una volta di essere più matura, seria (SIGNORA) e professionale della Simona nazionale. 1-0 per le trentenni. 1-0 per le giovani donne ricche di contenuto, e non vuoto contenitore, che non si lasciano intimorire da queste dive kitsch vanesie e capricciose. Urrà per Arisa. Cara la mia matrona cafona Simona, impara: dinanzi alla bellezza della semplicità non vi è orpello che tenga. Stretta la foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia.

martedì 11 settembre 2012

La tovaglia dell'Iperfutura

Mi chiamo Roberta ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese. Mi chiamo Vittoria, di anni ne ho 30 e, da qualche mese, non guadagno nulla. La prima affermazione non è una mia simpatica invenzione, bensì il titolo di un saggio-inchiesta sul precariato di Aldo Nove. La seconda è il mio "status upgrade". Le storie contenute nel testo di Nove mi avevano traumatizzata. E non facevo che ripetere a me stessa: no per me non sarà così, io ce la farò, io ci riuscirò. Ma a 30 anni, disperata e disoccupata, mi sono ritrovata a varcare nuovamente la soglia dell'università, con attacchi di panico e incubi ricorrenti, per capire quanti punti delle merendine manchino nel mio piano di studi per accedere all'insegnamento. Pensavo che l'epoca della raccolta punti fosse finita. Invece sembra che sia difficile liberarsene. E soprattutto, adesso mi accorgo che, anche per me, è impossibile non terrorizzare le nuove generazioni. Senza ricorrere a Roberta. La mia storia è sufficiente a mettere in guardia qualunque sognatore incallito o quasi. Mentre mi dirigevo verso la segreteria studenti in un ateneo che non è il mio, che non ho scelto io, e anche se piccolo, non padroneggio bene, avvezza come sono ai luoghi enormi, mi sono imbattuta in una mia vecchia conoscenza. Una ragazza che ho visto crescere. La mia amica era disorientata, si guardava intorno quasi terrorizzata perché faticava a capire da quale meandro della Micronesia fosse stata inghiottita una sua coetanea nel disperato tentativo di iscriversi all'università. L'iscrizione risulta assai faticosa, mi hanno spiegato, soprattutto perché nessuno è in grado di fornire informazioni chiare, in Micronesia, o perlomeno, ci sono molti impiegati nati stanchi che si divertono a complicare l'esistenza delle matricole. E anche la mia. Malcapitati unitevi. Io e C. ci siamo incamminate verso la segreteria, luogo da me indicato come probabile nascondiglio della desaparecida oltreché la mia meta, e lungo la strada la fanciulla, che pensava di essere stata fortunata ad incontrarmi, mi ha illustrato i suoi progetti per il futuro. Sapevo già che ha intenzione di trascorrere un anno all'estero prima di iscriversi ad un esamificio qualunque. Per questo l'ammiro molto. Ma ignoravo del tutto la sua facoltà preferita così come lei era all'oscuro del funzionamento dell'università. "Come funziona quindi?", mi ha chiesto ingenuamente. "Come se dovessi prendere una tovaglia omaggio all'Iperfutura. Quando hai raggiunto 180 punti, la laurea è tua. Ad ogni esame corrispondono dei punti, se superi l'esame sono tuoi, fino a che non arrivi a totatilizzarne 180, considerando anche la tesi e il tirocinio. Questo per la triennale. Per la tovaglia specialistica poi sono sufficienti 120 punti". C. ha sgranato gli occhioni neri sottolineati di verde e ha esclamato: "Ma davvero?". "Sì". Lei vorrebbe studiare antropologia culturale, mi ha detto. "Disoccupazione assicurata", ho commentato, caustica. Ma non si possono stroncare i sogni degli altri, anche C. ha diritto di sperare( come è accaduto a me dinanzi alle verità messe nero su bianco da Aldo Nove) che per lei non sarà così, che ce la farà, tanto più che LEI appartiene ad un'altra generazione ed è disposta a spostarsi e ad apprendere al meglio una lingua straniera. Meglio aggiustare il tiro quindi. "E'giusto che tu faccia quello che ti piace, che ti interessa, perché lo studio è comunque sacrificante e i sacrifici li fai solo per ciò in cui credi. E poi hai l'opportunità di imparare bene le lingue e di viaggiare, sfruttala al meglio!". Soprattutto per non tornare in Micronesia o nell'Italia disorganizzata dove capita ancora che le segreterie studenti chiudano le porte perché qualcuno si adira, e ti forniscano i numeri degli uffici sbagliati. La ragazza però ha le idee chiare. Prima di entrare nel mondo del lavoro, ha già compreso ciò che noi trentenni abbiamo scoperto solo all'ottavo stage. "Tanto qualsiasi cosa fai, oggi il lavoro te lo devi inventare". Giusto. Perciò meglio seguire i propri interessi e provare a costurire da sè la propria felicità. In bocca a lupo C. Lei si allontana ancora un po'frastornata e confusa, e io mi domando quanto mi costerà la nuova raccolta punti e se questa tovaglia dell'Iperfutura verrà riposta come le altre nel cassetto vitae (e nascosta all'occorezza nell'armadietto dei titoli occulti in presenza di un Himler HR che epura i "troppo qualificati") oppure se servirà a qualcosa, se in questo paese lo studio tornerà ad esssere apprezzato e remunerato degnamente. Ho i miei dubbi. This is the question.

domenica 9 settembre 2012

Il programma della giornata

Non avevo mai avuto bisogno di scrivere le cose da fare durante la giornata, sì insomma di programmare in qualche modo il mio tempo. Mi veniva abbastanza naturale. Ora, invece, è diventato quasi necessario prendere carta e penna e annotare il da farsi, altrimenti mi disperdo in attività inutili. Campionessa in arrampicata sugli specchi, scalata di monti impossibili che crollano al mio passaggio, e archiettetto di labirinti dai quali neanche io so uscire. Eccomi. Presente. Potrei inserire queste nuove qualifiche nel mio cv, chissà che a qualcuno non interessino. No, è meglio di no, va a finire che anche questa volta risulto essere troppo qualificata per il lavoro che non c'è e il generoso donatore di lavoro non mi concede neanche un misero colloquio. Tornando a noi, ho sempre preso in giro le compilatrici di liste. Le persone così ordinate, o meglio diligenti, da pretendere di mettere ordine persino nelle loro esistenze. Non che le mie varie vite, dico quelle precedenti a questa, siano state particolarmente incasinate, sì in una in particolare facevo molte cose, ma riuscivo a conciliare tutto (casa, lavoro, studio e scrittura). Poi, come spesso accade, sono cambiate un po'di cose e caos fu. Adesso ho deciso di dare una svolta. Forse perché siamo a settembre. L'estate è finita. Ed è arrivato il tempo di tornare alla vita normale. Così, adesso, faccio un po'come Rory Gilmour, la protagonista del mio telefilm preferito (Una mamma per amica). Annoto su un foglio tutti i miei impegni e li depenno in corso d'opera. Mi sono rimpromessa in ogni caso di non scadere nella programmazione della giornata da Villaggio turistico. Che fa molto Rain Man. In collegio mi dava noia il menù fisso della settimana, il pesce del venerdì e la pizza e le uova del mercoledì sera, figuriamoci se di colpo mi ritrovassi ad essere completamente padrona del mio tempo e della mia giornata, scandita in precedenza da me, e dovessi rispettare pedissequamente quanto annotato su un foglio la sera precedente. Lo posso tollerare per la scrittura, per lo studio, e magari per altre attività, ma per il resto è alienante. Non voglio diventare come una mia stramba coinquilina che ogni sera stilava il programma del giorno dopo e, se non rispettava gli orari imposti alla sua parte bambina dalla sua Signorina Rottermeier interna, si fustigava. Ancora ricordo la sua "lista". Mattina: ore 7:00: mi alzo. Ore 7:30: Faccio colazione (senza lavare la tazza che quella lascio nel pozzetto e se la vedono quelle sfigate della mie coinquiline studentesse, questo non c'era, ma evidentemente lo pensava). Ore 8:00: esco. E così via. Aveva programmato persino la pausa pranzo: ore 13: pranzo. Ore 13.20: leggo il giornale...TERRIBILE! Lei pensava di essere razionale, organizzata e ordinata. Eppure faceva acqua da tutte le parti. Il programma del campo di concetramento teutonico ad esempio non comprendeva la corvè. Alle pulizie la donna perfetta si sarebbe dedicata quando capitava, cioè quando la sua scrivania sarebbe stata sommersa dalle stoviglie sporche e uno stuolo di parassiti nato, cresciuto e pasciuto nel suo antro puzzolente, era sul punto di divorarla. La strada verso la santità è lunga e faticosa. E non fa per me. Un po'di ordine nella vita, però, non guasta. Perlomeno se vuoi ritornare a combinare qualcosa e non puoi sperare che sia un impiego a scandire il tuo tempo. Anche in questo caso vige il fai da te. E allora, che lista sia. Con moderazione.

giovedì 23 agosto 2012

La religione del mio tempo

Il successo e la realizzazione nella vita, oggi, si misurano dai guadagni. E'assurdo sentirlo dai propri genitori. Ma è così. Non si bada alla felicità del proprio figlio, se sta bene o meno, se è sereno, ma a quanto ha in busta paga. "Può pagare le vacanze ai genitori, loro sono andati lì e lui gli ha detto di prendere ciò che volevevano perché era a spese della sua azienda". Sottotili alla pagina di mia madre: ecco uno che ce l'ha fatta davvero, altro che tu "sfigata" con una laurea "sbagliata" in tasca, tanti "soldi" spesi "inutilmente" e a trentanni ancora dobbiamo mantenerti noi. "Si è laureato in tempo, è andato all'estero, ha girato e ora sta in Cina! Lì la gente la pagano". Eh sì, le multinazionali che hanno delocalizzato in Cina, tipo la Nike- per cui lavora il mito di madre- pagano i dipendenti occidentali ma chissà quanto sfruttano gli operai orientali. Evviva i capitalisti! Evviva i figli che ricoprono d'oro i genitori, che accettano di avere dipendenti senza alcun diritto, e si "stanno facendo i soldi" per poter rientrare un giorno in Italia e vivere da nabbabbi. Chi riesce in un'impresa del genere, merita, oltreché un servizio al Tg3 Basilicata come lucano illustre, una menzione dal presidente Lacorazza che promuove i talenti lucani (all'estero è chiaro), e un collegamento webcam con Buongiorno regione, ma anche un posto nella top ten "chi ce l'ha fatta invece tu" che ti viene squadernata in faccia ad intervalli regolari del giorno magari anche mentre tu provi a concentrarti per svolgere una della tue inutili e poco remunerative attività intellettuali. Accade così che gli adolescenti più irrequieti, gli amichetti da lista nera, i figli delle colleghe da criticare, si tramutino in idoli da adorare. Figlio di una sua amica, ragazzino esecrabile a suo giudizio per la scarsa educazione ricevuta, C. è divenuto in pochi giorni il mito di mia madre per i suoi lauti guadagni, la sua lussuosa abitazione condivisa con una cinese, che ha gli occhi a mandorla sì, è straniera, ma è ordinata, gheisca al punto giusto, e soprattutto guadagna anche lei tanto (dunque va bene, se non avesse avuto questi requisiti sarebbe stata un guaio "accattato" come altri e una fedifraga di certo in quanto "straniera"). Perché all'estero è tutto diverso, all'estero, in Cina, le persone, quelle "intraprendenti", si realizzano, e anche gli stranieri, all'estero, cioè a casa propria, sono degli ottimi partiti, donne o uomini che siano. Molto meglio dei nostri conterranei, italiani e ancor peggio se lucani, sicuramente il 730 sarà meno allettante per la signora Bennet di turno. A volte si fa molta fatica a tacere, a non rispondere, ma soprattutto a non chiedersi perché ci siano capitati in sorte certi genitori. Nessun dubbio sul come si arrivi a pensare ciò. Alcuno direi. Basta guardarsi intorno e magari rileggere gli Scritti Corsari di Pasoli. "Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: eso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Ma mai un "modello di vita" ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato ma rappresentato (...) Gli eroi della propaganda televisiva- giovani sulle motociclette, ragazze accantanto a dentifrici- proliferano in tanti eroi analoghi della realtà...". Oggi manager, veline, velone, politicanti...Rappresentanti di quel sistema che ci ha portato al collasso, alla deriva. Pasolini l'aveva già visto. Pasolini l'aveva predetto. Ma Pasolini era un diverso, un frocio, un pazzo. Uno da buttare dalla rupe. E ammazzare come un cane. "L'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato- scrive ancora Pasolini in un articolo dell'11 luglio 1974-. Ognuno in Italia sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero: perché questo è l'ordine che egli incosciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi diverso". L'alterità è un problema, essere lontani anni luce dal modello del trentenne figo è un vero e proprio guaio. Ripensavo a Pasolini mentre ascoltavo le baggianate partortire ad alta voce dalla logorrea di mia madre, e a quanti chiamano i loro amici per ostentare viaggi e denari, hanno come unico valore la ricchezza e non tendono una mano verso chi è in difficoltà né si mostrano generosi. Però loro sì che sono realizzati, loro sono figli da incensare e lodare, uomini da sposare. Hanno gli studi giusti, i tempi giusti, i soldi e le amicizie giuste, e vanno invitati e presentanti ad amici e parenti. Sì loro, i tipi giusti per la morale comune, che rispondono al mito dell'efficienza e del successo, possegono conti in banca e case, vanno osannati e emulati. E poi ci meravigliamo delle Nicole Minetti, delle Olgettina's girl e dei Fabrizio Corona. Frugando nella mia libreria, ho ritrovato una vecchia edizione della Coscienza di Zeno e su di essa un nome. Apperteneva a C. che se l'era venduta insieme con i libri scolastici del terzo liceo, e mia madre l'aveva comperata, nonostante io l'avessi già letta e ne possedessi una copia in edizione economica. La narrativa per lui, già all'epoca, era un bene di consumo, un libro qualcosa di cui sbarazzarsi e vendere al migliore offerente. Un ogetto inutile dal quale comunque si poteva trarre profitto. Per me invece è un bene prezioso da donare magari a chi ancora sa vedere col cuore. Ma io, e quelli come me, infatti, siamo degli sfigati. Dei "comunisti" magari, da buttare dalla rupe e da sopprimere in qualche modo.

martedì 7 agosto 2012

Donne sull'orlo di una crisi di...Peli!

Tempo d'estate. Tempo di spiaggia, sole, mare e costume. Ai tempi della crisi. I peli in vacanza non ci vanno mai. Anzi, in estate aumentano, come i prezzi delle estetiste. E, se il denaro scarseggia, bisogna arrangiarsi da soli. A ciascuno la propria spending review. Qualcuno storcerà in naso, borbotterà dicendo che è impossibile, che nessuno può farsi la cera da solo, e invece...Imposible is nothing (e non solo per l'ADIDAS!)! Basta avere l'attrezzatura giusta. Innanzitutto bisogna dotarsi di un fornellino. Ve ne sono di diversi tipi, da quelli più dispendiosi (massimo 40 euro, compresi di barattolo di cera, palette e strisce)a quelli più economici. Lo "scaldarulli" ad esempio- per intenderci il genere di prodotto, pubblicizzato dalla Veet, che assicura "risultati professionali" a casa- può essere vostro alla modica cifra di 10 euro. I rulli di cera costano 0,49 centesimi l'uno. Una volta comperati, vi basterà inserirli nel fornellino e mettere al scaldare il tutto. La cera impiega un po'di tempo per sciogliersi. Quindi, bisogna attendere prima di cominciare a stenderla sulle parti da depilare. Ma, procediamo con ordine. Al correndo dell'estetista fai da te mancano ancora due attrezzi fondamentali: strisce depilatorie e olio dopo cera. Investendo 1.20 euro, entrerete in possesso di 100 strisce. Mentre per quanto riguarda l'olio, quello della Gabor, utilizzato i molti centri estetici, in profumeria è venduto a 5.99 euro per 500 ml di prodotto. Una quantità sufficiente ad ungere un elefante. Non appena avrete tutto l'occorrente, e la cera sarà calda (in 30 minuti circa il fornellino raggiunge la temperatura desiderata), potrete iniziare a depilarvi, udite udite: da sole! Dal ginocchio al piede non vi è alcuna difficoltà. Non dovrete fare particolari gimcane per avere le caviglie lisce, i guai cominciano quando si sale e sarebbe meglio starsene sdraiate a pancia in giù su un lettino. Ma non disperate, con un po'di agilità e creatività si risolve tutto, se avete una vasca da bagno su cui poggiare i piedi, poi è ancora meglio. Ricontrollate in corso d'opera, possibilmente alla luce, quanto realizzato e quando sarete certe di aver eliminato qualsiasi ospite indesiderato e imbarazzante dai vostri arti inferiori, coccolatevi con l'olio dopo cera. Questo trattamento in un centro estetico vi costa dalle 20 euro in su. A casa, a conti fatti, spenderete meno di 5 euro, volendo abbondare. Si può essere belle, nonostante la crisi, facendo a meno del superfluo in tutti i sensi!

sabato 7 luglio 2012

Finché c'è passione c'è speranza

La crisi ormai è il nostro argomento preferito. La parola "crisi" viene pronunciata, scritta e letta milioni di volte al giorno, tanto che abbiamo preso a considerarla familiare. Non trascorriamo un giorno senza di lei. E per molti è divenuta un alibi per giustificare la propria disoccupazione. Prima era tutta colpa di Silvio Berlusconi, adesso è tutta colpa della crisi. Ma, mi domando, il termine "crisi" ha solo un significato negativo o può avere dei risvolti positivi? Il lemma deriva dal verbo greco "Krino"che, letteralmente, significa "discernere, scegliere, deliberare". La mia prof di greco, la mitica Grazia Oppido, mi ha insegnato che dallo stesso verbo deriva il termine dialettale "cernecchio" che sta ad indicare l'arnese per "cernere" "dividere" la farina dalla crusca; dividere cioè ciò che è buono, commestibile, utilizzabile, da ciò che non lo è. Quindi la frattura, la rottura, la crepa, la messa in discussione del mondo in cui viviamo, il crollo delle nostre certezze granitiche, di certe istituzioni, non è affatto deprecabile. Anzi, è utile a distinguere il bene dal male, a farci comprendere cosa va eliminato e cosa invece può essere mantenuto, quali sono stati gli errori commessi e come si può ripartire, quali ingredienti deve contenere il mondo che abbiamo l'opportunità di creare ex novo. E'inutile piangere sul latte versato. Inutile puntare il dito. Inutile persino emettere sentenze di condanna. Inutile ancora far notare che abbiamo studiato, faticato e sgobbato sognando di realizzarci in un mondo che non c'è più. La crisi ci spinge a discernere: a reagire. Qualcuno leggendo penserà:"Sì, belle parole...Reagire? Ma come?". REINVENTANDOSI. Ripartendo dalle proprie passioni. Ciascuno di noi ne ha almeno una. E allora perché non capitalizzarla, non sfruttarla. Magari se le cose fossero andate come avevamo previsto, se avessimo seguito il percorso prestabilito, che sarebbe stato ancora in auge se il sistema capitalista non fosse crollato, se la scure della "crisi" non si fosse abbattuta sui nostri nidi, non ci avremmo mai pensato. E quel nostro talento, quella nostra particolare attitudine, sarebbe rimasta nel cassetto degli hobby e l'avremmo tirata fuori solo nel tempo libro e solo per riempire un vuoto. Raschiamo il fondo del barile e vediamo un po'cosa riusciamo a tirare fuori dai nostri cilindri. In fondo l'hanno già fatto i nostri nonni nel dopoguerra. Se non si fossero ingegnati in qualche modo a quest'ora ci saremmo estinti. Le lauree non servono a nulla se le teniamo appese al muro o stampate su un cv. Accendiamo le menti. Il lavoro che avremmo voluto svolgere o non c'è, o è precario o poco remunerato. Bene, che faccio? Come vivo? Piango? Voglio vivere in un posto ma non posso. Chi l'ha detto? Perché mai dovrei subire le decisioni di un SISTEMA? Ho diritto o no ad autodeterminarmi? Se i diritti mi vengono negati, io me li riprendo con gli interessi. Alcuni ragazzi e ragazze italiane lo hanno già fatto. Piuttosto che perdere tempo e intestardirsi a volere essere l'eccezione che confermare la regola, si sono inventati un lavoro mettendo a frutto una passione. Le loro storie si possono leggere sull'ultimo numero del magazine Walk on Job. Si tratta di trentenni, laureati, alcuni ricercatori, praticanti avvocato, che hanno deciso di fare gli artigiani. Si sono messi in proprio e adesso lavorano e, soprattutto, sono soddisfatti. Si vis, potes! Biblioterapia A tutti i "disillusi", i net( non studio, non lavoro, non guardo la tv...), consiglio di leggere "Cosa tiene accese le stelle", di Mario Clabresi, giornalista, direttore de La Stampa di Torino. Il libro, edito da Mondadori nella collana Strade Blu, già disponibile in versione economica (12 euro), mi è capitato per le mani in libreria in un momento di disperazione. Ho preso subito a sfogliarlo incuriosita, e ho divorato le pagine che contengono i dialoghi di Calabresi con Gramellini, Mario Deaglio(quest'ultimo, economista di chiara fama, purtroppo è il marito della Fornero) e Giuseppe De Rita. Menti illuminate attente a registrare giorno per giorno i cambiamenti e le storture del nostro paese. Leggendo mi sono convinta che le passioni non sono un danno, ma un dono. Perché chi coltiva caparbiamente un interesse può avere una battuta d'arresto, ma poi basta una scintilla che il motore riparte, ricomincia a carburare. Il guaio è degli apatici, dei tiepidi, di chi si ostina a dipingere orizzonti oscuri e irti di nubi: non sanno cosa significa sentirsi vivi perché il fuoco sacro di una maledetta passionaccia non ha mai incendiato i loro animi né fatto brillare i loro occhi spenti.

lunedì 11 giugno 2012

L'esercito del surf

Quando rivelo la mia età (30 anni) e parlo dell'assurdità di questi tempi, del fatto che a 30 anni appunto ti sembra di non aver concluso nulla, che anche se non sei più così giovane, ma ti senti grande, non puoi fare le cose "da grandi", mi sento rispondere (dai GIOVANI) che non sono vecchia. E'tutto troppo liquido forse. E le categorie non valgono più. Da bambina avevo un'altra idea dei trentenni. Mi raccontavo stringendo al petto la mia bambola che a quell'età avrei avuto un lavoro e magari anche un bambino, o perlomeno un'identità definita, e invece oggi mi trovo a domandarmi come sarebbe andata se. Se solo avessi fatto delle scelte più oculate, se, contrariamente alla mia natura, fossi rimasta con i piedi per terra, piuttosto che volare in alto, far correre la mente verso orizzonti inesistenti. O se solo avessi rischiato di più, mi fossi lanciata, avventurata in strade e sentieri poco battuti da più, meno frequentati e canonici. Mah. Chissà come sarebbe andata. Ma la mia vita non è un film di fantascienza, non possiedo una macchina del tempo, e fare il processo alle proprie scelte è inutile, nessun tribunale può condannare un imputato per aver rincorso dei sogni e aver sbagliato strada. Un modo per recuperare ci sarà, nonostante l'età. Ma non venite a dirmi che sono "giovane" perché non lo sono affatto e ho il dovere di mettere un punto, almeno uno, nella mia vita e ricominciare da lì. Senza pensare a cosa avverrà dopo, senza pensare alle scelte non fatte che forse sono le migliori, e a quelle ancora da fare. Senza pensare. Pensare troppo fa male. E ci toglie la leggerezza necessaria per ricominciare a volare, di nuovo, ancora, nonostante tutto. Come fanno queste giovanissime fanciulle, riunite a Città del Messico per parlare di donne, mondo, politica ed economia. I grandi della terra ci escludono? Non vogliono tra i piedi ragazze giovani e impegnate, né si occupano seriamente di certe problematiche? Bene, ci pensiamo noi. La politica ce la facciamo da sole e a modo nostro. Complimenti al Girls 20 Summit. Consiglio vivamente: http://www.girls20summit.com/. Tra le partecipanti c'è anche una ventunenne italiana, Vera Campanelli, tarantina, pugliese (DEL SUD!), studentessa di Scienze Politiche, che per fortuna non proviene da nessuna massoneria o circolo esclusivo per figli e figlie di papà, né dall'Olgettina o da famiglie radical chic blasonate, ma milita in Libera e nel Pd (unica nota dolente) e si batte per la legalità. "Sono Vera, italiana e voglio usare la mia voce per combattere l'illegalità!". Speriamo bene.

giovedì 31 maggio 2012

Le notti bianche

A volte mi chiedo se valga davvero la pena essere giovani quando non si può vivere la giovinezza appieno. Voglio dire, i tempi sono quelli che sono e crearsi una stabilità economica, trovare lavoro e riuscire a tenersi stretto il lavoro che si ha, è sempre più complicato. In fondo non viviamo mai come vorremmo al 100%. E'una guerra. E spesso le condizioni di vita precaria si ripercuotono sulla nostra psiche che cercano invano una compensazione. Ogni giorno quando mi sveglio e comincio una nuova giornata mi pongo sempre lo stesso interrogativo: ci sarà una via d'uscita? Ogni labirinto, anche quello più intricato, ha un'uscita. "Arriverà-passerà-deve uscire la strada" mi ripete mia nonna con il suo fatalismo. E intanto siamo quasi a giugno e la legna arde ancora nel camino. Non credo più ai miracoli di nessuno. Possiamo anche dire che non credo proprio più a nessuno. Ma non voglio che questo stato di cose rovini quel poco di buono che ho costruito. Dunque direi che sarebbe opportuno trovare il bandolo della matassa, reperire una soluzione che dia di nuovo colore alle mie giornate e non mi faccia sentire un'inutile intellettualoide venditrice di parole. Forse è vero aveva ragione il mio professore di italiano quando diceva che se fosse tornato indietro non avrebbe studiato, avrebbe fatto il gitano. Gli avessi dato ascolto. Il suo nove in pagella me lo sono sudato, a pensarci adesso mi sento davvero stupida. Rivedo la ragazzina che leggeva i romanzi sotto al banco mentre lui spiegava, avida di conoscenza e recalcitrante ai suoi metodi severi. Dante, Petrarca e San Francesco da mandare a memoria. Ci assegnava tesine, parafrasi e ogni sorta di esercizio pur di impartirci la lezione dei classici. Io di notte facevo l'amanuense. Aspettavo che mio fratello si addormentasse e si girasse dall'altro lato, e accendevo la mia lampada da studio per iniziare la trascrizione. Quanto ho studiato al liceo. Ma ero felice di andare a scuola. Mi piacevano la mia scuola, il mio corso, i miei professori e i miei compagni. E, spesso, rimpiango i tempi del liceo e di zio Lello quando tutti erano convinti che studiare aveva un senso. Quando mi disperavo perché sui miei compiti di storia e filosofia non c'era neanche un segno rosso, neanche un errore. Quando sognavo la Roma di Pierpaolo Pasolini e il Corriere di Montanelli. Chissà dov'è la ventenne che si esaltava con la Critica della Ragion Pura e provava a capire testi scritti in tedesco. Ogni tanto il mio fantasma di materializza. Me lo vedo accanto durante i colloqui di lavoro, nelle agenzie interinali. Guarda i vari addetti, consulenti, reclutatori, responsabili delle risorse umane che brandisco curricula come materiale pubblicitario, cerchiano il voto di laurea, storcono il naso scorrendo le esperienze lavorative e contriti asseriscono che ormai le specializzazioni non servono quasi più a nulla. Che la nostra preparazione è più un ostacolo, un problema che un vantaggio. La ragazzina si copre le orecchie con le mani, va a rifugiarsi in un angolo, tira fuori dalla borsa un tomone di Dostoevskij e prende a leggere tremante. Invoca i nomi dei suoi insegnanti. Dei suoi numi tutelari, intellettuali. Prova a tendermi una mano, mi fa cenno di non credere a quanto dicono. Fruga nella sua borsa, ricolma di libri, e come un coniglio da dentro un cilindro, tira fuori "Le notti bianche". Vorrebbe spronarmi a non cedere, consolarmi. Ma mi invita a ricordare il manifesto del disincanto: non è più tempo per i sognatori. "Forse un raggio di sole, spuntato improvvisamente da dietro le nubi, si era nascosto per un momento sotto una nuvola gonfia di pioggia e tutto si era offuscato ai miei occhi? O forse era balenata dinanzi a me, triste e desolata, la prospettiva del mio avvenire? Fatto si è che io mi vidi come sono adesso, esattamente quindici anni dopo, invecchiato nella medesima stanza, sempre nella medesima solitudine, con quella stessa Matrëna che in tutti quegli anni non è certo diventata più intelligente..."(Da Le notti bianche). Eppure sono sicura che da qualche parte è nascosta la ricetta della rinascita. Il rituale di affiliazione al clan del Sole deve esserci. Lo scoveremo, caro il mio fantasma, così che tu possa smettere di nasconderti ed uscire finalmente allo scoperto.

mercoledì 23 maggio 2012

La mafia è una montagna di merda

Nel ventennale della strage di Capaci in una trasmissione radiofonica si interrogavano su come le stragi del ‘92 avessero cambiato la nostra vita. Si alternavano racconti di ascoltatori che, pur non essendo del posto, non avendo alcuna conoscenza della mafia, hanno vissuto intensamente quei giorni tanto da cambiare lavoro, impegnarsi per la legalità, pretendere un paese diverso in cui i giudici non saltassero in aria insieme con la propria scorta solo per aver fatto al meglio il proprio dovere. Tutti ricordavano alla perfezione dove si trovavano in quegli istanti. Io Capaci proprio non me la ricordo. L’unica immagine che serbo nella mente del maggio 92’è il volto di Rosaria Schifani. La voce rotta dal pianto di una vedova bambina che dall’altare di una chiesa del Sud chiede ai mafiosi di cambiare e poi, rassegnata, si lagna: “Ma loro non cambiano”. Di Via D’Amelio invece ho un ricordo nitido. Tornavamo dal mare. Mio padre aveva la radio accesa e parlavano dell’attentato. Non appena la macchina si fermò, mi precipitai in casa e accesi la tv. Davanti a me vidi delle immagini terribili. Corpi a terra coperti da bianche lenzuola, carcasse di macchine divelte, asfalto sollevato e il volto accigliato di Borsellino. Guardavo ma non capivo. Mi chiedevo se l’autore di quel massacro fosse un omologo di Tano Cariddi, il mafioso della Piovra. Per me la mafia erano loro. Don Vito Corleone, Tano. Avevo sentito parlare di Riina, di Provenzano, di Michele Greco e Buscetta. Eppure non ero riuscita a memorizzare i loro volti. Ma una cosa era certa: i giudici erano il bene, i mafiosi il male e non si sa per quale arcano motivo, a differenza di quanto accadesse nei cartoni, a vincere erano sempre i secondi. Gli stessi signori con la coppola e la lupara che rapivano i bambini, li nascondevano suoi monti, nei cuniculi o li scioglievano nell’acido. Ero terrorizzata dai discorsi dei giornalisti televisivi, pur essendo una bambina avida di cronaca nera, delitti irrisolti e film di Hitchcock, percepivo che c’era qualcosa di più terribile e temibile nella mafia, ma non capivo cosa. Non posso dire, tuttavia, che quell’evento mi abbia cambiato la vita. Prima di allora guardavo già con interesse Santoro, Mixer e i programmi di Zavoli. A nove, dieci anni, non potevo intendere tutto alla perfezione anche perché non avevo un’esperienza diretta di fatti del genere. Io ero una bambina lucana, non avevo mai assistito ad una sparatoria, visto morti a terra o temuto che qualche omaccione chiedesse il pizzo ai miei parenti, nemmeno sapevo cosa fosse un’estorsione. Sapevo che la mafia esisteva, mi affascinava, volevo capirla ma non mi spaventava più di tanto, o perlomeno non quanto i terremoti. Perché pensavo che la mia terra fosse immune dal fenomeno mafioso. Il 22 aprile del 1999, quando il mio paese è stato invaso dalle forze dell’ordine e sono stata svegliata dal frastuono degli elicotteri, ho capito di essermi sbagliata. Solo dopo aver letto “Gomorra”, però, mi sono persuasa che era necessario attivarsi affinché il sacrificio dei buoni non venisse vanificato. “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani avrà un inizio e una fine”, diceva Falcone, ottimista. Vorrei tanto potergli dare ragione. Ma a venti anni dalla morte dei giudici simbolo della lotta antimafia, mi sembra che l’ascesa della criminalità organizzata sia inarrestabile, a causa soprattutto di una cultura mafiosa, ben radicata nel nostro paese e difficile da debellare.

mercoledì 9 maggio 2012

La vera rivoluzione è il fai da te

Non ho mai creduto nelle agenzie di lavoro interinale. Già il fatto che guadagnino sul tuo lavoro e si prendano una percentuale per avertene trovato uno mi irrita. Come se gli stipendi, ops pardon “la paga”, magari a cottimo, fosse alta. L’ennesimo latrocinio. Oltre ai padroni del mondo, agli oligarchi, ai tiranni delle vite altrui, bisogna tollerare altri truffatori che si ammantano di santità e si mascherano da benefattori. Ho sempre pensato di poterne farne a meno, ma a quanto pare la mia era una pretesa bella e buona. Se cerchi lavoro prima o poi ti imbatti in loro, specie dove il mercato del lavoro è molto limitato, le offerte sono poche e gli squali sono pronti a sbranarti. In Basilicata se ti rifiuti di metterti in fila davanti alla porta del sindaco o del vicesindaco con le mani in pasta, se non vuoi abbassare la testa dinanzi ai feudatari di centrosinistra grotteschi sultani di questa terra, se decidi di non barattare la tua dignità di uomo libero con un voto, prima o poi finisci alla Man power. Sembra sia la prassi. E ti tocca rispondere ad asettici quesiti posti da un operatore che non vede l’ora di infilarti in un data base, catalogarti e tramutarti in un oggetto di guadagno. E’uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. C’è sempre un qualcuno sopra di noi che, come direbbe Troisi, “ci mang da ‘ncopp”. Siamo numeri, qualifiche, titoli di studio, brevi esperienze lavorative da riassumere in poche frasi. Record. File. Semplici flatus vocis che possano accontentare le richieste di una macchina, strumento attraverso il quale verremmo reclutati, contrattualizzati per un breve periodo e poi buttati nel cestino con il nostro strabiliante curriculum. E mi domando: a cosa serve? E’questo il modo di valorizzare i talenti di chi ti sta di fronte? E’questo il modo di inserire i giovani nel mondo del lavoro? Ho capito che c’è la crisi e abbiamo fame, ma fateci lavorare e fateci lavorare bene. Permetterci di esprimerci al meglio. E’vietato anche questo nella Repubblica fondata sul lavoro? Non ci è consentito neanche di spiegare quali sono le nostre reali aspirazioni, le nostre frustrazioni e i nostri bisogni primari? E’un lusso avere dei sogni e volerli realizzare lavorando? Beh, allora ditelo subito, non ci fate tribolare e noi troveremo un modo per porre rimedio. La fila davanti ad un qualsivoglia ufficio di generosi elargitori di beni primari è sempre un’esperienza formativa. Soprattutto perché è raro imbattersi in una storia positiva. Alle 10 del mattino, ieri, sulle scale della Manpower eravamo in tre. Io, una giovane fanciulla indigena e una donna che aveva tutta l’aria di provenire dall’est. Ormai ho sviluppato un certo sesto senso. Riesco a riconoscere la tipologia di lavoratore dall’abbigliamento e dal comportamento. La signora era conciata in maniera bizzarra, un po’troppo estiva, sandali beige sotto un paio di jeans attillati acquistati sulle bancarelle dei cinesi, giubbetto di jeans della stessa fattura e provenienza dei pantaloni, borsa invernale dai colori scuri. Piedi e mani erano in ordine, laccati e curati, mentre una chioma crespa nero corvino ricadeva sulle spalle leggermente curve. Non c’era bisogno che parlasse per capire da dove veniva e che genere di impiego cercava. La donna finora aveva lavorato come badante ed era la prima volta che visitava la sede di un’agenzia di lavoro interinale. Pertanto non aveva idea di come funzionasse e l’operatore, un omino in maglioncino chiaro e jeans scuri dall’accento toscano, l’ha invitata a ritornare, dopo averle consegnato una fotocopia sulla quale c’era scritto cosa dovesse fare prima di recarsi in filiale. Ovvero caricare il proprio curriculum online, sperando che il portale decidesse di accettarlo, e poi tornare a fare visita ai cercatori di pepite d’oro, per verificare se la procedura fosse andata a buon fine. In bocca a lupo. Ascoltavo con attenzione le raccomandazioni dell’omino operatore mentre la ragazza indigena che stringeva tra le mani la busta di una griffe da centro commerciale (“Artigli”, il genere di abiti che mia nonna chiamerebbe “sciupp”: insomma robetta usa e getta) mi osservava. Avevo capito che lei non era una che se ne stava con le mani in mano. Abbigliamento sportivo, scarpette firmate, borsetta in tinta ben abbinata, la fanciulla non doveva aver perso il lavoro da poco. Era in cerca di un nuovo impiego, magari migliore di quello precedente. Ma la sua storia l’avrei appresa di lì a poco, quando l’omino ci ha gentilmente spedito nella sala di attesa dell’agenzia, la tromba delle scale. L’ufficio non è affatto accogliente e gli operatori ci tengono alla privacy dei futuri lavoratori. Quando sono arrivata, insieme con le mie compagne di sventura, all’interno c’erano già quattro persone, una coppia, presumo di fidanzati, che chiacchierava col burocrate toscano, e due ragazzi molto giovani, muniti di curriculum che attendavano di poter essere archiviati nella macchina infernale. La coppia è stata liquidata subito. I ragazzi sono stati accolti dall'operatore, mentre noi prendevamo posto fuori. Oramai tra me e la fanciulla Artigli c’era complicità. Una naturale empatia che viene a crearsi tra sguardi disorientati e preoccupati. Le ho sorriso e mi sono accomodata sui gradini di marmo rosso. Che in comunicazione non scritta equivale a: "prego, sono pronta ad ascoltare la tua storia". “Secondo te c’è da aspettare molto?”, ha esordito la fanciulla spaesata. Ed io:”Non so è la prima volta che vengo”. Lei era una veterana, ma doveva solo aggiornare il curriculum con le nuove esperienze lavorative. Per indurla a narrarmi le sue vicende ho manifestato subito le mie perplessità in merito all’utilità delle agenzie di lavoro interinale. La tecnica del dubbio metodico funziona sempre. “Io mi ci sono iscritta ancor prima di laurearmi, ma non mi hanno mai chiamato. Forse perché non avevo la laurea, non lo so. Ma poi ho fatto altro, ho trovato lavoro…E non me ne sono più occupata”. O meglio è tornata per aggiornare il cv che l’agenzia non aveva certo contribuito a riempire. Perché il lavoro, miss Artigli, se l’è comprato tramite un master in progettazione territoriale. Una sorta di marketing territoriale, se non ho capito male, che avrebbe dovuto spendere in Basilicata. Terra a vocazione turistica. Basilicata cost to cost. Luogo in cui gli amministratori si scervellano a tal punto per accogliere nuovi visitatori e incentivare il turismo che mancano le infrastrutture. Una per tutte: la ferrovia a Matera. L’aeroporto poi è un’utopia, quindi non vale la pena citarlo. Ma il vero volano della nostra economia, udite udite, è il turismo. Quindi, se è così, la brillante masterizzata avrebbe dovuto trovare occupazione... Ops, pardon!, che sbadata... Avrebbe dovuto essere sfruttata in maniera legale senza vedere il becco di un quattrino(stage)in un ufficio comunale, alla regione, all’Apt, non so nei luoghi deputati a questo genere di cose. Invece no. La studentessa viene parcheggiata in un’agenzia di comunicazione. “Beh io comunque conoscevo i programmi di grafica e quindi ho lavorato in quel settore. Diciamo il mio progetto non è andato a termine, ma avevo un lavoro e mi sono adattata”. Lo spirito di adattamento di questi tempi è fondamentale. Ma a volte se ne abusa. “Poi, però, ho cambiato ruolo dala grafica sono passata all’amministrazione perché è venuta a mancare una figura”. E che fai in tempi di magra rifiuti il lavoro? Ti impunti perché hai delle competenze e ti fanno fare altro? No, siamo flessibili, bisogna essere umili, l’ha detto anche l’ex ministro, la Fornero poi dice che noi al Sud vogliamo solo andare al Grande Fratello o a morire ammazzati in guerra per due spiccioli. Meglio abbozzare e tacere. E la ragazza laureata-masterizzata-grafica si è adattata a fare la segretaria. Benché pagata. Anche se continuava ad avere un contratto di apprendistato, stage. “Quando poi però ho visto che i soldi arrivavano e non arrivavano, molti mesi lo stipendio saltava, il contratto non veniva mai rispettato e io ci rimettevo anche di tasca mia perché mettevo a disposizione la mia auto per l’azienda…Beh dopo un po’non ce l’ho fatta più e non ho terminato i sei mesi di ‘stage’”. Ha messo fine alla prigionia. Viva dio. Dopo aver sostenuto il mio brevissimo colloquio con l’omino toscano, esperto della fame nel mondo del giornalismo e di tecniche di sfruttamento a collaborazione, ho fatto alla masterizzata Artigli il mio “in bocca a lupo”, ma avrei voluto consegnarle un fucile a pompa ed istigarla alla rivoluzione piuttosto. Perché, se non ci diamo da fare noi, al peggio non ci sarà mai fine. Meglio inventarselo un lavoro che farsi sfruttare. Gli altri, chiunque essi siano, e qualunque cosa abbiano fatto prima, sanno solo mangiare sulle nostre spalle. Mors tua vita mea. E allora costruiamocelo noi l’avvenire, senza aspettarci nulla da nessuno.

sabato 28 aprile 2012

Monn era, Monn è e Monn sarà

Aspettando l'autobus di Liscio, a Potenza, si possono fare degli interessanti studi antropologici. Basta uscire dalla propria auto, piazzarsi con un giornale in mano a via Zara, drizzare le antenne e carpire i discorsi dei passanti. Una donna discinta, con indosso un paio di pantaloni della tuta fucsia, una maglia a righe bianche e nere e un trench spinge vigorosamente un passeggino, a bordo un bimbo curioso si guarda intorno preoccupato. Forse che sua madre sta esagerando, forse al bimbo non va di essere strattonato, magari preferirebbe una mano più dolce... Ma la donna è di fretta e lancia avanti il suo bebè senza alcun riguardo. Finalmente si ferma e prende a chiacchierare animatamente con un'altra donna. L'autobus che attendeva sembra sia arrivato. Scende suo marito, lei lo ignora, gli consegna le chiavi dell'auto e lo spedisce lontano. Il discorso che sta facendo è troppo importante, il consorte può anche aspettare. Quando si tratta di letti, matrimoni e vecchi difetti, le pettegole timorate di Dio perdono ogni ritegno. Donna con passeggino:"Io sono stata una che si è sposata a 35 anni, mio marito ne aveva 44, e ancora parlava di convivenza. Ma quale convivenza? Ti devi sposare!", e con vigore dà una spinta al passeggino, il pargolo a questo punto teme di essere spedito per sempre nello spazio. La donna costumata, leggermente in sovrappeso, solleva la pianta della scarpetta da tennis destra e continua:"Queste ragazze di mo' non sanno cosa è il rispetto!". E, l'altra, in divisa da borghese, jeans firmato, trench attillato e bauletto, stringendo il manico della borsa, annuisce:"Noi eravamo diverse...Adesso persino i matrimoni sono una farsa. Che senso ha?". Sembra che abbia toccato un tasto dolente. La donna costumata arriccia il naso, arrotola le maniche del trench e si lancia nella mischia. Le sue guance rubizze si tingono di rosso. Sputa fumo dalle narici e sbuffa: "Ieri mi ha chiamata mia cognata, si sposa tra qualche giorno e mi ha chiesto se andavo a vedere il primo letto...Questa è stata fidanzata tanti anni, si è fatta le vacanze, i week end, è andata in giro. Quante volte ti sei andata a coricare col tuo futuro marito e mo parli di primo letto? Beh, avrei voluto dirle: 'Ma non ti vergogni?'...". La borghese, sentendosi in difetto, prova ad aggiustare il tiro. "Siamo giovani, si sa come vanno queste cose", replica nel vano tentativo di spezzare una lancia a favore della cognata libertina. Ma la paladina del matrimonio perfetto non ci sta e si adira. "Io non sono andata mai girando, sono stata sempre in casa. Allora sì primo letto, ma mo che sono queste cose? Queste fanno schifo, è vergognoso! E con questo chiudo. Buonasera". Il fanciullo nel passeggino aveva appena tirato un respiro di sollievo quando si vede nuovamente lanciato nell'etere dalla madre-moglie ineccepibile che, dopo aver sputato sentenze su chicchesia, si è ricordata di avere un marito stanco ad attenderla in macchina e se ne va sculettando, fiera della sua condotta pre-matrimoniale. "Che donna seria... Donna di altri tempi!", commentano nel frattempo gli astanti tutti concordi tranne la borghese che nasconde il suo bauletto dietro la schiena e riflette sulla sua vita. Forse si starà domandando se sarebbe stata assolta dalla scarmigliata Buon Costume che è appena andata via. Un'ingenua bontempona, molto bigotta, a mio parere, che ancora si racconta e racconta la favola dei tempi che furono. Mia nonna, salita sull'altare col ventre rigonfio, dice sempre:"Monn (mondo) era, monn è e monn sarà". La differenza tra ieri e oggi è che prima molte cose non si sapevano né si dicevano o facevano apertamente, ora c'è meno ipocrisia. Anche la chiesa ha perso il suo pacchetto di voti e fa meno proseliti. Sul dilemma matrimonio\ convivenza non mi esprimo, ci dovrebbe essere almeno la possibilità di scelta. Ma questa è una stortura propria di una stato non pienamente laico come quello italiano e, a mio avviso, fastidiosamente paternalista. Bisognerebbe invece riflettere sulla convivenza di innovazione e tradizione. Nonostante i tempi siano cambiati, poche donne arrivino illibate al matrimonio, il "primo letto" resiste. La tradizione continua ad essere rispettata. Perché? Le figlie si comportano come le loro madri, emule delle nonne che, già all'epoca, non erano state sempre fedeli ai dettami del credo cattolico e della morale comune. Mi viene in mente al tal proposito una scena del film Almanya in cui tre generazioni di donne sono a confronto: la figlia ventenne incinta del convivente, la madre ultra quarantenne che ha appena appreso la novità e la nonna. In quell'occasione la madre viene a sapere che anche sua madre (cioè la nonna) aveva concepito prima del matrimonio e basita esclama:"Quindi io sono l'unica rispettabile della famiglia?". Ebbene sì. Monn (mondo) era, monn è e monn sarà. E, dunque, cara la mia bigotta in tuta che si fa i muscoli spingendo passeggini, sua cognata non deve vergognarsi proprio di nulla: non ha commesso nessun peccato, non ha danneggiato né offeso nessuno, forse, dovrebbe mettere solo da parte certe tradizioni obsolete. Ma se a lei va di mostrare a tutti il letto in cui dormirà da donna maritata, mi chiedo: che male c'è?

giovedì 5 aprile 2012

Dizionario precario: le parole che i nostri genitori non possono capire

Il lavoro precario ha modificato il nostro modo di esprimerci e di comunicare. Molte parole sono entrate a far parte del nostro vocabolario. E tante altre, esistenti, risultano obsolete e causano profonde incomprensioni. Il cambiamento del mondo del lavoro ha determinato una rivoluzione copernicana finanche nella comunicazione, aumentando il gap tra le due generazioni che ogni giorno, a tavola, a casa, negli uffici, nel modo, si trovano a confrontarsi. (Eduardo De Filippo questi fantasmi, le parole dei giovani). La generazione dei “garantiti”, quelli che hanno impostato la loro esistenza alla ricerca del posto fisso, si sono resi autonomi perché i loro contratti sono sempre stati a tempo “indeterminato” e qualsiasi sacrificio abbiano fatto era finalizzato al raggiungimento di un unico obiettivo finale, e la generazione degli “sfigati”, coloro i quali vivono in un video gioco dai quadri infiniti, dove non vi è alcuna certezza e inseguendo un unicorno dal nome “stabilità” si viene costantemente sconfitti e si è costretti a ricominciare da capo perdendo i punti guadagnati nelle vite precedenti. I garantiti sono arrivati subito alla fine del gioco. Gli è bastata una sola vita per procacciarsi il bottino. Conoscevano a memoria il percorso, era anche esso predefinito, simile per tutti. Non c’erano scorciatoie né strade tortuose o insormontabili colonne d’ercole, nel video gioco dei garantiti al superamento di una prova corrispondeva una determinata ricompensa, l’eroe del video gioco, un ometto con le spalle larghe e lo sguardo rivolto al futuro colleziona punti e trofei fino a che arriva all’ultimo quadro: contratto a tempo indeterminato. Lo sfigato no. Il precario rischia di rimanere collaboratore a vita e di dover provvedere a sé nei mesi di magra con quello che è riuscito a mettere da parte. Ma vallo a spiegare ad un genitore che il frutto della tua collaborazione mensile non può essere assolutamente definito “stipendio”! Ogni tentativo di instaurare un dialogo con un sordo risulta disastroso. Di questi esempi ce ne potrebbero essere a bizzeffe. Il primo termine che mi è venuto in mente è proprio “lo stipendio” che potrebbe essere sostituito dal termine “paga” ad esempio, sarebbe più corretto e quanto meno genererebbe minori incomprensioni e non ci si troverebbe ad essere accusati ingiustamente di lesinare solo perché proviamo a farci bastare quanto ottenuto in attesa di un altro lavoro e soprattutto in assenza di un’indennità di disoccupazione. Dunque ora chiedo a voi, a chi segue questo blog, qualora io abbia dei seguaci, di raccontarmi la propria storia di precario incompreso.

giovedì 29 marzo 2012

Lavoratori di altri tempi

Se oggi qualcuno mi domandasse cosa faccio nella vita, risponderei:"Colleziono esperienze lavorative". Quando rileggo il mio curriculum provo il sentimento del sublime kantiano. Mi sento un esserino infimo e limitato rispetto alle infinite possibilità di sfruttamento. Reggerà la mia psiche a questa costante instabilità? "Papà tu hai fatto lo stesso lavoro per 30 anni, io ne ho già cambiati trenta di lavori!", l'affermazione di Angie, la protagonista del film di Ken Loach "In questo mondo libero" è il manifesto di un'intera generazione, la mia. In questi giorni in cui sui giornali si parla di riforma del lavoro, mi trovo spesso a confrontarmi con mio padre e, ovviamente, non ci capiamo. Parliamo due lingue diverse. Io quella tempo determinato, lui a tempo indeterminato. Io quella della "collaborazione", lui quella del "lavoro vero". Lui si affanna a tirare in ballo "la gavetta", io provo ad illustrargli "il lavoro usa e getta".
Dialoghi surreali:
Collaboratrice a progetto figlia:"Io vorrei sapere a cosa servono questi contratti di collaborazione occasionale. Ci metto 3 mesi per trovare un lavoro che dura 2 mesi e dopodiché sono di nuovo al punto di partenza. E cosa ho concluso?"
Lavoratore in pensione padre:"E'la gavetta, la fanno tutti!"
Collaboratrice a progetto figlia:"Quale gavetta se i settori sono sempre diversi? Uno che sogna di fare il banchiere mica passa prima dal negozio del panettiere, poi fa il salumiere e poi ancora il fornaio fino a che non arriva in banca, ma solo per versare sul conto del padrone il guadagno giornaliero. E questa me la chiami gavetta? Si può parlare di gavetta laddove c'è una prospettiva lavorativa, allora io parto dal basso per arrivare in alto. Inizio facendo la cronaca di quartiere e arrivo a fare la cronaca cittadina. Ma in assenza di prospettive e avanzamento di carriera, parliamo di sfruttamento e BASTA!"
Lavoratore in pensione padre:"Pensi che sei solo tu in questa condizione? Credi che gli altri stiano meglio di te?"
Collaboratrice a progetto, isterica, tuttavia figlia che porta rispetto:"No, non ho mai avuto la vocazione per l'egocentrismo. Ma mi pongo il problema e lo porto all'attenzione delle passate generazioni, quelle delle baby pensioni"
Lavoratore in pensione(adulta) padre per nulla idealista:"E allora cosa proponi? Stai senza fare niente? Non mi pare ci sia un'alternativa alle collaborazioni"
Collaboratrice meno che a progetto, esausta, ma affetta da una patologia inguaribile causata dallo studio della filosofia platonica:"Io dico che a me questo surrogato della vostra gavetta non serve a nulla. Quanto ancora dovrò continuare a fare la tappabuchi e a collaborare? Secondo me un'alternativa c'è. Deve esserci!Giuro che risponderò per le rime al prossimo "donatore di lavoro" che mi offre una misera collaborazione e mi indora la pillola promettendomi chissà quale carriera all'interno della sua azienda solo per indurmi a lavorare meglio! Ma pensano davvero che siamo scemi? Oltre al danno anche la beffa!"
Lavoratore in pensione a tempo indeterminato ex democristiano preoccupato per la tendenza all'insubordinazione della figlia che già immagina prigioniera politica filobrigatista:"Certo fai così che quello manco ti assume!"
Collaboratrice occasionale, a progetto se gli va bene, terrorizzata dal futuro:"'Assume'? Continui ad utilizzare una terminologia inappropriata! Forse volevi dire:'Manco ti usa e ti getta'?"
Lavoratore in pensione stanco della difficile comunicazione con la figlia "strana":"Scusa ma cosa pretendi che ti dica che dopo due mesi ti manda già a casa?"
Collaboratrice sull'orlo del silenzio stampa:"Quanto meno sarebbe più onesto. Ma anche la verità, a quanto pare, è un costo insostenibile per l'azienda".
Il lavoratore padre prima di tornare a fare il pensionato, e dunque di sedersi in poltrona a guardare "la ghiolittina", esclama:"Non capisco perché ti scaldi tanto! La situazione è questa. Tu, con la tua rabbia, non puoi cambiarla, devi solo cercare di essere ottimista!".
La ribelle depone le armi col genitore e si rifugia in camera a sognare la rivoluzione.
Breve riepilogo dei titoli di giornale:"Il presidente cinese si congratula con Monti per la riforma del mercato del lavoro"; "Voglio più Cina in Italia". E io dovrei essere ottimista? Ma qui non c'è limite al peggio!
La terrorista fallita si accinge a preparare il quinto curriculum contraffatto(secondo le indicazioni dei vari Informagiovani: depennare lauree e master), sperando che i cinesi le facciano un contratto a tempo INDETELMINATO!

domenica 18 marzo 2012

Stanze piene di scatole, scatole piene di passioni

Ogni qualvolta terminiamo un lavoro. Ogni qualvolta ci scade un contratto, che sia di collaborazione o a progetto, la domanda che ci viene posta da tutti è:"E ora?". Purtroppo noi esseri umani a tempo determinato non abbiamo mai una risposta a tale quesito. Possiamo arrampicarci sugli specchi Ikea delle nostre camere mentali, inventare soluzioni da verificare, collaudare, testare, mostrarci ottimisti e fiduciosi nel futuro, ma in fondo ci sentiamo smarriti. E il solo pensiero di aggiornare il curriculum è per noi fonte di angoscia. Anche perché un'altra domanda sorge spontanea: e ora l'ennesima "esperienza lavorativa" in quale curriculum andrà inserita? In quello reale, in quello con una laurea in meno, in quell'altro in cui ho solo il diploma o in quello in cui dichiaro di non aver mai letto un libro in vita mia? Mah, dilemma amletiano. E ora? E poi? Il tuo sapere, le tue passioni? Quale via scegliere? Quale dei mille cose che si è disposti a fare, pur di lavorare, devo mettere in evidenza? Quale strada è più giusto percorrere? Quale dei mille libri che ho acquistato leggerò senza sentirmi fuori luogo, fuori tempo, perdigiorno, scansafatiche, intellettuale senza arte né parte, saccente e inconcludente, secchiona fallita? La mia casa ormai è piena di stanze. La mia mente è una villa ottocentesca in decadenza, un'abitazione crepuscolare. Ogni stanza è stata riempita a dovere, nei tempi giusti, con l'arredamento adeguato a seconda dell'epoca e delle circostanze, i mobili tracimano di parole, pensieri, scritti in lingue diverse: italiano, spagnolo e qualche testo in tedesco, non mancano lingue morte e dialetti; le pareti sono ricoperte di quadri, da Klimt a Tamara de Lempicka, e gli scaffali più alti delle librerie custodiscono collezioni di film, spettacoli teatrali e riviste letterarie...E ora? E poi? E ancora? Che fare? Quale delle figure che siamo capaci di incarnare è spendibile sul mercato? Quale delle maschere che abbiamo imparato a costruirci col tempo va indossata adesso per resistere all'urto delle crisi che fagocita passioni, speranze, idee e voglia di rimettersi sempre e comunque in gioco?
Non lo so. Mi aggiro in tuta e scarpe da ginnastica tra le stanze della mia villa in decadenza e cerco tra gli scatoloni i pezzi con i quali costruire una nuova me stessa sperando che la prossima versione, l'ennesima collocazione sia definitiva e meno provvisoria delle precedenti.

domenica 19 febbraio 2012

Aspettando Babbo Natale

Il capello blu del mio mondo è puntellato di bottoni argentati. Una colonna di fumo si leva nell'aria immota. L'orologio del tempo mette le lancette indietro. E, tra le nuvole lontane, appare una bambina col naso all'insù la notte di Natale. Anche lei, come i suoi coetanei, attende con ambascia l'avvento di un signore dalla barba bianca. La mamma acciottola in cucina, la nonna sferruzza accanto al fuoco e una pentola borbotta sul fornello. Dieci monelli si azzuffano in salotto, uno di loro, il più audace, afferra una spada di plastica e invita gli altri a duellare. Lo zio, con un balzo, si fa spazio tra i nipoti. E'guerra. La casa risuona di urla, schiamazzi e grida di gioia. La bambina è lontana. Si è rifugiata in una campana. Vuole stare da sola a contemplar la luna. Solleva il mento e alza gli occhi al cielo fino a che non può fare a meno di avvicinarsi alla finestra. Una fatina bianca punta su di lei il riflettore lunare. La bambina comincia a volare. Cavalca sulle nuvole sorridente quando sente un leggero scampanellio. La slitta. Le renne. La risata. Babbo Natale è arrivato. Lo vede. Ci crede. Ci spera. Si avvicina. La piccina tende una mano per accarezzare la renna più anziana e si ritrova di nuovo in cucina tra le braccia della nonna che le canta la ninna nanna.
Come vorrei tornare bambina e salire a bordo di quella slitta. Come vorrei poter sognare ad occhi aperti e sperare che almeno uno di quei sogni di avveri. Se l'allegro nocchiero tornasse anche solo per un secondo, gli chiederei di traghettare me e le persone che amo in un altrove dove non esiste la parola "precario".
Torna Babbo Natale, la piccina ti aspetta in questa notte in cui l'aria è tersa, il cielo è cobalto e il silenzio della Natura è rotto solo dall'allegro suono di un organetto.

domenica 12 febbraio 2012

Vedi alla voce: AMORE

Noi donne siamo esseri assai complicati. Volubili, capricciose e cangianti. Ma la cosa peggiore che ci possa capitare, o meglio ciò in cui siamo più brave, è l’arte del fantasticare. Spesso confondiamo la realtà con la fantasia anzi, peggio, vorremmo che il reale si piegasse ai dettami del nostro pensiero. Questo accade soprattutto con gli uomini. Ci capita di confonderci, fraintendere e vedere l’inesistente. Li osserviamo a lungo, sezioniamo i loro discorsi, analizziamo sillaba per sillaba le loro parole e trascorriamo interminabili serate con le amiche a parlare di loro fino a che non abbiamo redatto e sottoscritto il documento finale della riunione: l’ermeneutica del malcapitato. Che uomo sventurato colui il quale ha accidentalmente attirato la nostra attenzione, qualora noi apparteniamo al genere di donna che vuole la fantasia al potere! Costui si troverà appiccicato addosso un personaggio che non gli appartiene.
Ma procediamo per grado. Esaminiamo le varie produzioni artistiche del cervello femminile:
1 Amico che diventa probabile fidanzato: L’esperienza, mio malgrado, mi ha insegnato che se un uomo ti vede come un’amica sei un’amica e basta, eccetto rari casi di fabiovolismo, trombamichismo-legalizzato. Ma la cosiddetta “tromba-amica” ha un status a sé stante da non confondere assolutamente con l’AMICA.
L’amica, per un uomo, è un ente asessuato. Un qualcosa di etereo da venerare e rispettare come e forse anche di più di una sorella. L’Amica è colei che dispensa consigli, la confidente, la mamma, la compagna di giochi, studio e chiacchiere. L’AMICA ha una sua vita, un suo fidanzato, suoi orari e altri mille fattacci suoi. All’amica ti mostri esattamente come sei, senza remora alcuna. Non hai bisogno di vederla e sentirla di continuo. Non devi starle appiccicato, attaccato. Non ti manca il suo calore, il suo odore, la sua bocca quando lei non c’è. Non attendi con ansia la sua telefonata e non ti scervelli pur di averla accanto a te, fosse anche solo per un’ora. Se l’amica chiama e tu non rispondi perché hai altro da fare, la richiami quando puoi, anche il giorno dopo. “Non fa nulla, capirà. E’un’amica”, pensi.
Difficilmente una donna AMICA diventa FIDANZATA. Perché lo sguardo dell’uomo è diverso. Quando vi diranno “tu per me sei solo un’amica”: arrendetevi, non c’è speranza! Non vi desiderano, non vi vogliono, non fate per loro. Non c’è nessun doppio senso, nulla da ricamare, setacciare, interpretare. Noi siamo DONNE, loro sono UOMINI. Funzionano come i cani: ho fame= mangio la pappa. Ad ogni azione corrisponde una reazione e nessuna interpretazione. La mente maschile è semplice. Manichea. Frasi nominali, periodi brevi e illuminanti. SE SEI AMICA SEI AMICA E PUNTO. E lasciate perdere quella vostra zia, che ha visto mille volte Harry ti presento Sally, e che con sguardo sognante- occhi a cuoricino e ciglia alla Bambi- vi prospetterà un radioso futuro insieme. Vostra zia MENTE. Vostra zia è un venditore di illusioni a buon mercato. Uno spacciatore di palliativi affettivi. Guardatevene bene: i film causano dipendenza! Quando, poi, la stessa zia vi dirà che nella pellicola hollywoodiana lui e lei sono amici e alla fine si mettono insieme, ricordatele che Harry sin da quando aveva conosciuto Sally avrebbe voluto portarsela a letto. Ergo, ne era attratto. E fatele rivedere il pezzo in cui Harry parla dell’amicizia fra uomo e donna. Vostra zia sarà disarmata. Dovrà arrendersi all’evidenza: quando è amicizia e basta, senza secondi fini, rimane tale a vita.
2 L’uomo perfetto: lo vedo per strada, è molto carino, mi piace. Lo conosco, magari con una scusa. Non ci parlo, non ci esco, lo osservo e provo ad immaginare la sua vita. So che lavoro fa, magari è anche un mio collega, ma non so nulla di lui per poter dire di stimarlo, apprezzarlo, adorarlo. Eppure in un attimo lui diventa il mio mito. Perfetto in ogni campo dell’esistenza. Impeccabile, intelligente, serio, erudito, assennato, virtuoso, generoso...INUMANO. Un personaggio da cartone animato della Disney, così inamidato che a confronto con lui il principe azzurro si rifugerebbe sul lettino di un Crepet qualunque. Alla descrizione manca, però,l’ultimo aggettivo, il più importante per noi novelle Cenerentole: INNAMORATO. Che non mi sembra un dettaglio da poco.
La storia d’amore ricamata sulle lenzuola del nostro corredo è pregiata, sublime. Giorno dopo giorno la arricchiamo di nuovi particolari, desunti dall’analisi attenta e puntuale dei gesti e delle espressioni del nostro Adone, gli ascriviamo qualità che non possiede, passioni che non coltiva, intelligenza di cui non è dotato, affetto nei nostri confronti che non nutre assolutamente, o perlomeno non come noi vorremmo, tralasciamo di notare le altre donne alle quali si accompagna, che invita a cena( e non al cinema quando è da solo e non sa con chi uscire), che va a prendere e riaccompagna a casa, che tratta con garbo ed educazione, e dalle quali non si sente assediato, perseguitato, infastidito, anzi. Ma noi, accecate, non vediamo nulla di tutto questo. Lo riempiamo di attenzioni, regali. Lo soffochiamo e lo rimproveriamo quando ci accorgiamo che si comporta diversamente da come avevamo stabilito. Che va fuori traccia, fuori trama. Sconvolge i nostri piani. Il protagonista disobbedisce al narratore onnisciente, all’amante totalitaria, alla donna con lo scettro, alla zarina esigente e possessiva. Alla presuntuosa e prepotente autrice di un romanzo liberticida.
Tutto questo non è amore ma governo incontrollato della signora Ragione. E’lei che, in base a parametri standard, sceglie la sua preda e la dota della vita desiderata. Pertanto,prima o poi sugli schermi mentali della donzella in questione apparirà la scritta: The End, Game Over.
La donna tradita dal personaggio della sua favola d'amore piange come una bambina alla quale un cugino dispettoso ha appena svelato che non esiste babbo natale. E’adirata, arrabbiata, rancorosa. Ce l’ha col genere maschile. Se potesse, progetterebbe una soluzione finale. E se la prende con la vittima sacrificale del suo non amore, lo insulta, lo perseguita, piccona il monumento che ha eretto in suo onore. Eppure perde la dignità pur di non rovinare la sceneggiatura smielata a cui ha lavorato per mesi. Ma non disperate: alla fine anche la sognatrice più tenace si arrende. Si struggerà per ore, giorni, mesi forse anche anni, e smetterà di farneticare solo quando incontrerà un uomo che le farà battere realmente il cuore. Allora forse, dico FORSE, sarà amore.

3 Io Candy, tu Terence: La sindrome della candida infermiera di solito colpisce le donne più altruiste, generose e coraggiose. Non c’è soluzione, la donna idealista è destinata a soffrire. L’intrepida passionaria, infatti, è convinta di poter cambiare tutto e tutti con la forza del suo amore. L’amore per lei è una missione, una vocazione, un atto rivoluzionario. E il candidato prescelto è meglio che sia molto diverso da lei. Se lui è inaffidabile, disinteressato, problematico, misterioso, un po’depresso, fragile ma furbetto, è tanto di guadagnato.
Lui è il classico uomo a cui fa comodo avere una cara amica disponibile e premurosa che non lesina attenzioni e premure, certa che, alla lunga, un giorno, riuscirà a far finalmente breccia nel suo cuore. Lei sta sempre lì ad aiutarlo, sostenerlo. Gli fa compagnia quando lui è solo. Lo ascolta. Lo sorregge. Trova semplici soluzioni ai suoi problemi inesistenti. Attira l’ira e l’invidia delle pretendenti e lui magari la usa per farne ingelosire qualcuna. Tanto, per lui, è solo un gioco. Intanto la scema si innamora di un uomo che non c’è ma che ci sarà quando, grazie alla sua dedizione, lui cambierà. Diventerà forte, maturo, sicuro e risoluto. Non si sveglierà tardi per andare a lavoro. Non si dimenticherà del compleanno e dei guai di nessuno. Non penserà più solo agli affaracci suoi. Non avrà difetto alcuno. Sarà paziente, affettuoso, gentile, garbato e premuroso e ricambierà tutti gli sforzi profusi dalla paladina dei buoni sentimenti impalmandola per sempre e accompagnandola all’altare. Che stolta la nostra infermiera! La storia di Candy Candy non deve averle insegnato niente.
Da bambina una scena di quel cartone mi ha traumatizzata: quella sfigata con i codini biondi si infila un abito rosa molto elegante e va ad assistere alla prima del suo caro “amico” Terence, l’attore bello e maledetto, lo stronzo per antonomasia di cui tutte vanno in cerca per saziare quell’atavico istinto masochista tipico della contorta psiche femminile. Dopo lo spettacolo, Candy resta ad aspettare Terence fuori dal teatro e viene assediata da uno sciame di fan impazzite, lui non la vede neanche (figurarsi, manco fosse Johnny Deep!) e va via con Susanna, un’attrice bella, ricca e viziata(insomma il contrario di Candy: povera, buona ma sfigata). Le fan corrono dietro al loro idolo, Candy nel vano tentativo di attirare l'attenzione di Terence viene investita da un tornado di menadi urlanti, e la puntata termina con un impietoso fermo immagine: la lentigginosa infermiera in lacrime con in mano una scarpa, i codini discinti e l’abito a brandelli. Anche se avrei capito solo da grande le conseguenze emotive di un finale del genere, di fronte a quella scena avevo una gran voglia di piangere. Per fortuna nei cartoni animati, dopo la burrasca, torna a splendere il sole. Ad un certo punto del cartone, infatti, l’amore trionfa: Candy e Terence si mettono insieme. Sembra che la cosa funzioni, che finalmente lo zelo della bimba bionda sia stato premiato ma…Susanna ci mette lo zampino. La figlia di papà salva la vita a Terence e finisce in ospedale poco prima della messa in scena di Romeo e Giulietta, proprio quando finalmente i due innamorati, Candy e Terence, si sarebbero ritrovati. L’attore si sente in debito con la sua collega, lei sa di essere un peso per la coppia di fidanzatini e, piuttosto che renderli infelici, preferisce togliersi la vita. Ma Candy, che è brava, buona e sfigata, la ferma (naturalmente!) e rinuncia a Terence.
La vicenda si conclude come è giusto che sia: lo stronzo bastardo è stato incastrato dal destino e ha pagato per tutte le sofferenze arrecate alle sue mille amanti, compresa l'infermiera modello la quale, tuttavia, dopo tanti amori sbagliati e disavventure proprie e altrui ( parliamoci chiaro: Candy porta una sfiga pazzesca, tutti quelli che le si accostano hanno incidenti, muoiono, rimangono invalidi… E’quasi peggio di Berlusconi!)riesce a trovare l’uomo adatto a lei che ricambia il suo amore e la rende felice. Il suo nome è Albert. Che poi è un Anthony- primo storico fidanzato di Candy: bello, buono, dolce e generoso: uno zucchero filato che naturalmente appena si fidanzata con l'orfanella muore cadendo da cavallo. Poi non ditemi che Candy non porta sfiga!- terencizzato: un principe hippy.
Albert si prende cura di lei, fra le sue braccia Candy si sente protetta, tranquilla, amata. Albert non è stato scelto, non si è messo in mostra né ha attirato l' attenzione di Candy perché aveva bisogno di una psicologa h24. Albert è semplicemente piombato nella vita di Candy e l'ha presa per mano. L'ha aiutata a rialzarsi e le ha dato tutto ciò di cui lei aveva bisogno. In una parola: l'ha amata....

Perciò, care donzelle, non affannatevi. State tranquille, serene, e ben attente. Aprite gli occhi, le orecchie e il cuore. In amore non c’è ragione, non c’è ideale, ma solo caso, irrazionalità, realtà e accettazione. “L’amore non si sceglie si viene scelti”, l’ho sentito dire ad un sacerdote in chiesa durante un matrimonio. “L’amore- ripeteva il prete- è essere attratti da qualcuno: tu non sai dire il perché ma senti di voler stare con quella persona, di voler condividere tutto con lei”. Negli occhi della ragazza che quel giorno è salita sull’altare ho scorto la felicità. Lei era serene tra le braccia del suo lui e non avrebbe voluto essere in nessun altro posto al mondo. Allora pensai che il sacerdote in fondo avesse ragione, ma mi basavo solo sull'esperienza altrui, in qualità di osservatore esterno. Oggi, invece, ho la prova provata che è così.
L'amore accade. E'un piacevole fuoriprogramma. Non c'è scelta. La Ragione si tace e il cuore prende il sopravvento. Se le donne che si ostinano a voler gestire l’ingestibile, a mettere ordine dove regna il caos, per paura in fondo di lasciare andare la vita perfetta che si sono create, di mettere in discussione le loro certezze, e di scoprire la loro vera essenza specchiandosi negli occhi e nell'anima di chi le ama, lo capissero, eviterebbero tante inutili sofferenze. E, soprattutto, se prima di pretendere di amare gli altri si amassero di più magari, avrebbero un atteggiamento meno masochista nei confronti dei sentimenti. Ma per capire il vero significato della parola amore, prima si deve passare attraverso la sua negazione.
Alcuni consigli biblioterapeutici e non solo:
Lucia Etxebarria: Ya no suffro mas por amor- Io non soffro per amore- edizioni Tea.
Massimo Gramellini: L'ultima riga delle favole, Longanesi editore.
Hermann Hesse: Favola d'amore, le trasformazioni di Pictor, ed. Nuovi Equilibri e Demian, Oscar Mondadori.
Alain De Boton: Esercizi d'amore,ed. Guanda (consigliato da Martina Pagliuca)
David Grossman: Che tu sia per me coltello, Oscar Mondadori.
Da vedere: La verità è che non gli piaci abbastanza e Amore e altri disastri(sono film scemi, ma contengono alcune verità).
Da ascoltare: Io, chiara e l'oscuro. (In onda tutti i giorni su Radio2 alle ore 10, i podcast sono scaricabili dal sito http://www.radio.rai.it/radio2/iochiaraeloscuro/).

martedì 7 febbraio 2012

Ave Neve

Erano anni che non si vedeva una neve così. Erano anni, forse da quando andavo al liceo, che ai lati delle strade non c’erano montagne bianche. Mi ero quasi dimenticata cosa si provasse a camminare sotto la neve senza ombrello per le vie del mio paesello. E soprattutto era da tempo che non ascoltavo un silenzio surreale. Quante volte, in passato, mi è mancato quel silenzio. Quando la neve copre ogni cosa col suo manto bianco, persino il rumore più assordante si tace. Non c’è suono che resista al suo avvento. La coltre bianca è in grado di fermare il tempo. I paesaggi innevati non hanno età. Non ci sono orologi nella neve. Le lancette si spezzano e si respira aria di eternità. Ogni cosa è liscia, morbida e soffice come i fiocchi che cadono lenti dal cielo. Danzano felici nell’aria e si posano in terra, sui tetti, sugli alberi, sicuri che la loro apparizione farà felici in tanti. Quando ero ragazzina era piacevole svegliarsi con la neve. “Oggi niente scuola”, pensavo e mi voltavo dall’altro lato. Sprofondavo tra le lenzuola di flanella e, una volta sveglia, non vedevo l’ora di uscire per poter giocare a palle di neve. Non si sa come- o meglio so bene a causa di chi- le battaglie a “paddaroni” si concludevano sempre con un tuffo nei prati della Piazzetta. Come mi sembrano lontani quei tempi in cui facevamo la danza della neve; ogni sera la nostra preghiera era sempre la stessa: “Dio fai la neve”. Tanta neve, niente scuola, più tempo libero. Poi uno di noi una volta si sbagliò e invertì i ruoli. Divinizzò la neve e si rivolse direttamente a lei. “Neve, fai dio!”, urlò il ragazzo convinto. La neve non rispose, come avrebbe potuto, anche dio d’altra parte è muto. Però da lontano si udì un tuono e il giorno dopo i monti erano coperti di uno spesso strato di zucchero a velo.
E’vero, mi direte, la neve causa molti problemi. Ogni nevicata arreca disagi alla circolazione. I sindaci sono costretti a chiudere le scuole. E c’è finanche chi muore. Ma nessuno può mettere in discussione la magia delle neve. Mai come adesso sono convinta che ciò che nasce sotto la coperta perlacea sia destinato a durare. La neve si scioglie lentamente, si infiltra nel terreno, nutre le piante sin dalle radici e dà loro la forza e l’energia necessarie per sbocciare rigogliose in primavera...Grazie Neve per averci creato.

domenica 29 gennaio 2012

Mattino

La ricollocazione in un luogo ti porta inevitabilmente a riflettere sulla percezione di esso. Mi spiego. Spesso il paesaggio tende a riflettere il nostro stato d’animo. Nel senso che, al di là di posti oggettivamente belli, di solito la bellezza di un luogo è nello sguardo di chi lo osserva. O meglio nella sua anima. La Basilicata è una terra poetica. Un luogo in cui il silenzio dominante è rotto solo dai rintocchi dei campanili, dallo stormire degli uccelli tra le fronde e dal battere d’ali di un nibbio solitario. La Lucania è la terra dei boschi; l’occhio si perde nel verde a rincorrere le evoluzioni aeree di una gazza birichina. Appena desta la montagna, ricoperta di brina, si stiracchia sotto i tiepidi raggi del sole. Un lago montano occhieggia da lontano. E pian piano macchie sempre più intense di colore si versano sulla tavolozza interiore di ciascun osservatore, colmando il cuore di un indescrivibile tepore. Il fuoco che la sera crepitava nel piccolo camino in cucina riprende ad ardere. Un nuovo giorno può avere inizio.
Per me che ogni mattina percorro la strada nel bosco il paesaggio ha un grande valore. Animali montani ed elfi ridanciani si inchinano al mio passaggio. Il nibbio mi scorta dall’alto e la gazza sta accorta. Che nessun umano si permetta di ostacolare il mio cammino verso la luce. Il sole fa capolino dietro cumuli di panna montata. La mia anima si rallegra. Metto su un po’di musica e canto a squarciagola nella mia auto, da sola.