domenica 30 ottobre 2011

La cinese

Roma, giovedì pomeriggio, ore 16 circa. La squinternata è di nuovo in strada. Ha letto su Portaportese che un negozio di abbigliamento a San Giovanni cerca una commessa part-time, preferibilmente studentessa. Ed eccola che, con una buon dose di ottimismo, e un sorriso finto da animatrice turistica stampato in faccia, apre la porta di casa pronta ad affrontare una nuova fatica. E, innanzitutto, dà una sistemata ai suoi curricula taroccati. "Per cosa ci candidiamo oggi? Per un posto da commessa. Bene, dunque in pole position vanno messi i cv depotenziati:solo laurea triennale, nessuna esperienza giornalistica, uscita dalla Sapienza ho fatto l'animatrice- l'educatrice e la figurante". Perfetto, la squinternata aveva ripassato la parte ed era pronta a recitarla. Si apre il sipario, tutti in scena...
Sono arrivata nei pressi del negozio senza alcuna speranza. Sapevo che mi avrebbero scartata subito ma ho voluto provare lo stesso. Mi ero abbigliata da ragazzina, di solito, anche quando cerco di camuffarmi da persona seria, dimostro sempre qualche anno in meno. E'una fortuna. Però, i migliori portali per la ricerca del lavoro insegnano che, soprattutto in sede di colloquio, non bisogna lasciare nulla a caso. Anche l'abbigliamento deve essere studiato, mirato, approfondito. E una commessa deve essere alla moda, al passo con i tempi, quindi: minigonna, leggins, stivale basso beige, giubetto dello stesso colore e borsa abbinata: mi guardo allo specchio Ikea, ricevo un occhiolino di incoraggiamento e mi rimetto in viaggio.
Camminavo spedita, di tanto in tanto lanciavo qualche sguardo alla strada, pressoché deserta, saracinesche chiuse, qualche indignato assonato, e un gruppo di turisti stranieri. Le foglie secche cadevano dagli alberi e andavano a riempire il marciapiedi dall'altro lato della strada, mentre il tram, cigolante sulle rotaie, si avvicinava alla prossima fermata.
"Numero sette, è il mio. Ci sono", ho pensato quando ho realizzato di essere arrivata a destinazione. Il negozio era microscopico, buio ma in vetrina vi erano abiti costosissimi. Involontariamente ho sollevato lo sguardo e mi sono imbattuta in una scritta:"Cedesi attività". Perché mai chi ha deciso di vendere la propria attività commerciale si mette a cercare una commessa? Mah...
Scelta molto singolare a mio parere. Tuttavia ormai ero lì, quindi tanto valeva affrontare un colloquio, qualora ve ne fosse stata la necessità. Mi sono fatta coraggio e sono entrata. Ma non ero sola. Dietro di me c'era una ragazza cinese dal viso buffo; capelli neri cortissimi, pelle molto chiara e un paio di occhiali tondi non molto spessi poggiati sul naso. La cinesina, minigonna di jeans e Superga ai piedi, è andata dritta dalla commessa capo.
La proprietaria, un signora romana sulla sessantina, col naso capriccioso e le palpebre socchiuse, stava interrogando una candidata. Sembrava che non le andasse bene nulla. Aggrottava le sopracciglia e arricciava la bocca ad ogni affermazione della sua interlocutrice. E, dopo un po', annoiata, ha zittito l'aspirante commessa, dicendo:"Le faremo sapere". Aveva tutta l'aria di chi non ha alcuna intenzione di assumere altro personale.
Non appena la prima malcapitata si è dileguata, la signora bionda, seduta comodamente in poltrona, ha posato lo sguardo su di me e, ancor prima di chiedermi il cv, ha perso a bombardarmi di domande:"Dove abita? Studia? Quanti anni ha?". La mia risposta naturalmente non è stata di suo gradimento. "No, mi spiace. Noi cerchiamo la ragazza di negozio...", ha concluso e e mi ha liquidato.
Non ho capito bene cosa volesse dire. Ma ho preferito non indagare oltre. E mi sono avviata verso l'uscita ma non ho potuto fare a meno di ascoltare il dialogo tra la cinese e la commessa in carica.
Finalmente era arrivato il suo turno. La cinese aveva atteso in silenzio che la proprietaria si liberasse e alla commessa venisse dato il permesso di parlare, ed ora poteva farsi avanti, aveva l'opportunità di presentare la sua candidatura. Ma, quando la commessa capo le ha sorriso e gentilmente le ha domandato del curriculum, la cinese ha fatto un passo avanti e, scuotendo la testa, ha replicato:"Non voglio fale la commessa. A me intelessa complale l'attività!".
Non ci resta che LIDELE: la Cina avanza e noi arretriamo.

venerdì 28 ottobre 2011

Achtung: Non rispondere a questo annuncio

Il cicisbeo napoletano si è dimostrato un truffatore. Abbigliato come un rappresentante di pentole, gentile e cordiale, in realtà voleva arruolare promoter. Ma procediamo con ordine. Mercoledì mattina mi sveglio prestissimo e mi presento in Viale Asia 21 (zona Eur) alle 8.15 circa. Avevo appuntamento col manager dell'azienda, la "Proship"- ricordatevi questo nome-, alle 8.30. Ho preferito, tuttavia, arrivare un po'prima. Pioveva e non volevo essere bloccata dal nubifragio. Per fortuna, non sono stata la sola a pensarla così. Davanti al portone c'era un'altra ragazza in attesa. Poiché il colloquio, a dire la verità assai fumoso, nel senso che mi erano state fornite pochissime informazioni sul lavoro che sarei andata a svolgere e soprattutto sul luogo di lavoro, non mi aveva convinta, ho pensato bene di indagare. La mia compagna d'avventure sarebbe stata la prima ad essere interrogata. Aveva sostenuto il colloquio dopo di me, rispondendo, anche lei, all'annuncio che aveva trovato sul Portaportese.
Ora, sull'annuncio si parla di "Nuova apertura di un punto commerciale", e le figure richieste sono: hostess, addetti al magazzino, amministrazione d'ufficio, marketing. Ma in sede di colloquio non si era parlato di nulla di tutto ciò o meglio nel mio caso si è fatto un accenno al marketing, allo studio del prodotto, all'analisi dei dati e a fantomatici business plan. Mentre la ragazza con la quale stavo parlando era stata adescata con la promessa di un posto da segretaria. Dunque la giornata di formazione non poteva svolgersi lì. Ci avrebbero portate altrove. Sì, ma dove?
Ho cominciato, tuttavia, ad essere assalita dai dubbi solo quando, voltandomi verso il citofono, mi sono accorta che era stata cambiata l'intestazione. Da "Proship" la società era passata a chiamarsi "Golden Age". Strano, molto strano, ho pensato. Ma ho taciuto. Dopo poco il numero di astanti è aumentato. Ci ha raggiunte Natasha, una giovane donna russa. Alla domanda:a te cosa hanno detto?Cosa dovrai fare? Ha risposto:"Dovrò occuparmi di promuovere un prodotto nella mia area, in Russia". La faccenda si fa sempre più ingarbugliata, addirittura lei deve fare delle telefonate internazionali?Mah.
La folla davanti alla porta aumentava. Gli ultimi in ordine di tempo a ripararsi sotto il portone dell'azienda sono stati due ragazzi calabresi, di Vibo Valentia, arruolati come magazzinieri. Ma uno di loro aveva intuito prima degli altri la truffa. "Secondo me, ragazzi questi ci portano a fare vendita porta a porta altro che. Dove pensate che sia qui il magazzino? Secondo me non esiste!", ha esordito il ragazzone biondo dagli occhi verdi e il volto rassegnato. E, poco dopo, le sue parole hanno trovato conferma nei fatti. Un gruppo di ragazzi e ragazze ben vestiti, gli uomini abbigliati pressapoco come il cicisbeo, tra il testimone di Geova e il rappresentante di pentole, e le donne molto truccate e superintacchettate, tutti armati di ombrelli e voluminose cartelline, ci è sfilato davanti. C'eravamo cascati tutti, ma io volevo andare a fondo. Finalmente la segretaria, una nanerottola sospesa su un paio di stivaletti tacco quindici vestita di nero e fucsia, con la stessa maglia, gli stessi pantaloni e la stessa collana del giorno prima, ci ha consentito finalmente di salire.
Lo scenario era sempre lo stesso. Stanza stuccata di rosa, segretarie mediamente coatte, che si muovo all'unisono, sorridono e rispondono al telefono, e in sottofondo, nemmeno troppo sottofondo visto che il volume era altissimo, musica da discoteca anni 90'e jingle da Love Boat. La puzza di metodo americano stile Kirby si leva dal pavimento, sbatte contro il soffitto e ti si appiccica alle narici.
Ci siamo seduti, la segretaria fucsia ci ha distribuito delle schede da compilare ma tutti noi, prima di scrivere, ci siamo guardati in faccia e con molta circospezione abbiamo cominciato a compilare l'autorizzazione ad effettuare una giornata di prova con l'azienda truffaldina. Natasha, dopo un po'si è fiondata sulla nanerottola bruna e le ha chiesto delucidazioni sul nome dell'azienda. Le avevo dato l'imbeccata. "Mi scusi, mi hanno detto che il nome dell'azienda è cambiato. Ora si chiama Golden Age ma prima aveva un altro nome!", ha tuonato la russa. E la nanerottola, sulle note di Scatman John, ha replicato piccata che non era così e che l'azienda, esistente da un anno, aveva avuto sempre lo stesso nome. Bugia.
Dopodiché il cicisbeo ci ha chiamati uno ad uno e ci ha affidati ad una persona. Io ho visto sparire i miei colleghi di sventura dietro la porta per non ricomparire più. Poi ho scoperto che l'ufficio del damerino napoletano sempre cordiale e sorridente era dotato di una porta d'ingresso autonoma. Perciò io la mia formatrice, una ragazza bionda vestita di nero dal volto butterato, venuta da Palermo "appositamente per la formare e selezionare il personale", ci siamo incamminate verso la metro. Lungo la strada incontravo i miei colleghi che avevano già abbandonato, mi lanciavano occhiate allarmate, provavano a mettermi in guardia con le espressioni del volto, perché la formatrice non gli permetteva di avvicinarsi. Io avevo capito ma volevo andare avanti nella mia indagine e riuscire a carpire altre informazioni.
La palermitana mi ha mollato subito, si è giustificata dicendo che aveva un impegno alle 10 e mi ha lasciata con una rumena, Antonella, che mi avrebbe introdotto al lavoro. La ragazza, prima di tutto, mi ha offerto un caffè e dialogando con lei mi sono accorta subito che fosse più malleabile della sua collega, parlava di più e, benché sembrava temesse di sbottonarsi troppo, non era poi così difficile spillarle altri dettagli.
Sebbene si trincerasse dietro una terminologia aziendale, americana, mandata a memoria senza comprenderla fino in fondo, la rumena alla fine ha ammesso che il lavoro consisteva nel promuovere casa per casa, negozio per negozio, servizi o promozioni di una determinata azienda. Più contratti chiudi più guadagni. Altro che marketing, business plan e robe avveniristiche, ogni "formatore" e di conseguenza ciascun collaboratore ha una zona di Roma da setacciare in cerca di nuovi clienti e nuovi contratti.
L'azienda, "Always one", mi ha spiegato la rumena, è stata fondata da un certo Raffaele Di Nardo che, dopo aver conseguito una laurea in Economia in Italia, è volato in America per un master nella Grande Distribuzione e, una volta tornato, ha messo in piedi questa società che offre servizi, o meglio promoter, alle aziende prendendo in giro gli aspiranti candidati con annunci e colloqui fasulli. Il metodo è chiaramente esportato dagli Stati Uniti.
Prima ti dicono esattamente quello che vuoi sentirti dire, ti tagliano il profilo su misura, in modo che tu, allettato dall'offerta, non possa rifiutare. Poi se non fuggi, come abbiamo fatto io e i miei compagni di sventura, ti formano a dovere.
"Hanno un metodo di insegnamento che non trovi altrove", ripeteva la rumena per convincermi a restare. Che tradotto sarebbe: ti fanno il lavaggio del cervello, ti convincono che lavori per una grande azienda, che il fondatore sia una specie di guru, ti promettono avanzamenti di carriera e grandi guadagni, ma alla fine non fai altro che bussare alle porte, importunare le persone e vendere chiacchiere. "No, grazie", è stata la mia risposta finale e mi sono congedata intorno alle 11, lasciando Antonella in un bar con uno dei suoi sottoposti.
Per evitare che altri caschino nello stesso tranello, riporto i numeri telefonici dell'ufficio, che troverete nell'annuncio: 06\59290231- 06\54229898. Mi raccomando, non vi fate prendere per il naso. Buona fortuna!

martedì 25 ottobre 2011

Bianca Roma

Ieri ho capito- o forse già lo sapevo e ho semplicemente realizzato- perché mi sono innamorata di Roma. Perché è grande. Enorme. Vasta. Ampia. Accogliente. Aperta. Insomma: un ricettacolo di possibilità. Conoscerla tutta, a fondo, è pressoché impossibile. Il suo fascino sta nell'imprevedibilità. Mentre cammini non sai mai cosa potrà spuntare da dietro un albero, una siepe o un muretto di cinta. Scivolando agevolmente sulle ampie strade, ti scopri a strizzare gli occhi per spingere lo sguardo oltre la linea che delimita il tuo campo ottico. L'immagine sulla tua retina è sbiadita, sgranata, ma l'intuito ti spinge ad avvicinarti. Vedi da lontano un mausoleo, una costruzione bianca mastodontica che ricorda il Tash Ma Al. La cupola è identica. Inoltre vi si accede percorrendo una larga gradinata sormontata da due statue enormi. Da lontano non riuscivo a vedere cosa ritraessero, non avevo molto tempo per soffermarmi, stavo andando ad un colloquio di lavoro, ma mi sono ripromessa che al ritorno, avrei inseguito quel miraggio, avrei percorso la strada fino in fondo e sarei salita sulla gradinata avvicinandomi alle due sfingi di marmo e alla strana pagoda all'orizzonte. Ho alzato il passo e ho imboccato, sollevata, Viale Asia. Anche una gita forzata in un altro quartiere, a Roma, può tramutarsi in un viaggio d'istruzione.
Per il colloquio non ci hanno fatto aspettare molto. Eravamo in tre alle 15.30. E io sono stata la prima ad entrare. Un cicisbeo pelato che trasudava aziendalismo e marketing da ogni poro mi ha fatto qualche breve domanda sulle mie "aspettative", fortunatamente non ha indagato oltre con sospetto sul mio cv, anzi mi ha lasciato esporre educatamente le mie ragioni e mi ha fissato un appuntamento per una giornata di formazione in azienda. "Serve a lei per conoscere noi e a noi per conoscere lei", è stata la chiosa marzulliana del damerino dall'accento napoletano. Il lavoro che mi è stato prospettato, per una volta, sembra una cosa seria. Ma preferisco smontare le pellicole che la mia testa di disoccupata cronica ha preso ad girare.
Sono uscita dalla stanza stuccata di rosa assai baldanzosa, ho salutato una fioraia rumena che era in fila con me davanti al portone e sono uscita diretta verso la mia nuova Mecca, la chiesa che avevo intravisto tra gli alberi in cima ad un vialone. Ho percorso la strada a falcate. Sgusciavo rapida tra gli alberi gettando occhiate voluttuose alle vetrine dei negozi. "Quanta bella roba! Ma che prezzi!", pensavo tra me e me, e intanto andavo, decisa e fiera, verso la meta. Quando, finalmente, sono arrivata ai piedi della gradinata, ho alzato lo sguardo e ho visto davanti a me due uomini in marmo altissimi, imponenti, con un libro sotto un braccio, sicuramente meno ospitali del Cristo di Maratea. Erano San Pietro e Paolo, santi patroni di Roma, ai quali è dedicata la Basilica. All'ingresso è incisa la celebre frase con quale Cristo fondò la Chiesa- che nella sua mente doveva essere ben diversa da ciò che poi è diventata- ovvero: "Pietro, tu sei pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa". Mi è venuto in mente il quadro che raffigura l'investitura di San Pietro, ho provato ad interrogare il mio hard disk sull'autore del dipinto, ma l'unica cosa che è riuscito a reperire è stata l'immagine della pagina del libro di arte del liceo in cui si parlava del quadro. Magra consolazione.
Tornando alla costruzione, all'esterno è molto bella, all'interno invece, come tutte le chiese moderne, è abbastanza spoglia. E oltre al solito crocifisso di arte contemporanea e ad una statua della vergine Maria, naturalmente in una navata, con tanto di cassetta per le offerte in bella mostra, c'è anche lui, l'uomo delle stimmate. Padre Brand, San Pio da Pietralcina. Il sacerdote, un giovane corpulento vestito di blu, prima di sparire compiaciuto dietro ad una porta a vetri, ha versato qualche spicciolo nella cassetta ai piedi di Santo Marketing e tutte le candele intorno a lui, magicamente, si sono illuminate. Padre Pio sembrava un albero di Natale. A quel punto ho dato le spalle all'altare e sono uscita.
La chiesa si innalza su un grande altare di marmo bianco, girando un tondo si scopre il convento dei frati, dotato di un bellissimo chiostro bianco che riprende, nell'architettura, il palazzo dei congressi dell'eur e tutte le costruzioni del quartiere edificato in epoca fascista. Inutile dire che il bianco predomina. E rapita dal candore dei marmi colpiti dai raggi tiepidi di un pallido sole autunnale, mi sono seduta ad osservare una parte della capitale a me ignota, avvolta nella luce diafana del crepuscolo. Ho chiuso gli occhi e ho tirato su col naso per annusare l'aria madida di brina. Pensavo di essere sola ma, quando ho riaperto le palpebre, accanto a me ho visto una donna minuta vestita di bianco che mi ha sussurrato i seguenti versi:
"La libertà che abbiamo conosciuto
Evitata- come Sogno-
Troppo lungo per qualsiasi Notte se non per il Cielo-
Ammesso che Quello- davvero- sia la salvezza"...
Emily Dickinson

(Poesia del 1862 contenuta in "Sillabe di Seta")

venerdì 21 ottobre 2011

Beate le shampiste

Scorrere di continuo le pagine nere del Portaportese fa male agli occhi. Continuare a mandare lettere di presentazione e cv a fantomatici datori di lavoro che, il più delle volte, non rispondono, è alienante. Ma se non lo fai ti prende l'ansia. Perché pensi che stai perdendo ore decisive per trovare un lavoro. Poi, però, ti domandi a cosa serva, se alla fine anche per il mondo del lavoro-generico s'intende- sei troppo qualificata.
Sostanzialmente funziona come con gli uomini. Per alcuni, quelli più scadenti di solito, o quanto meno affetti da un'infinità di complessi tale che quando entrate nella loro auto per la prima volta sentite una strana musica, e non è la radio né un'allucinazione, ma la loro orchestra interiore che esegue aria sulla V corda, e prelude ad una serie infinita di cadute di stile alla quale voi, rincretinite, non dare alcun peso salvo poi ripensarci in seguito e domandarvi:"Come ho fatto a non accorgermene prima?"...Sì insomma, per questi casi disperati di mezzi uomini, abituati a Cat Woman e Shampoo Girl, voi sarete naturalmente "Troppo" e quindi vi scaricheranno con la solita solfa (la sentirete perché i maschi in queste cose sono variegati come gli abiti della Benetton: cambiano solo i colori ma il capo è lo stesso) della ragazza da STORIA, del "non ti merito", e in taluni casi, assai rari, se portati all'esasperazione, arriveranno ad ammettere la dura verità:"Preferisco una shampista a te!".
Ora dovremmo, per intenderci, accordarci sul significato del termine "shampista". La signora in questione è quella tipologia di donna, generalmente mononeuroide, tutta tacchi, lampade e cinepanettoni, che non è abituata a pensare e, conseguentemente, a parlare, facendo discorsi di senso compiuto. Un manna da cielo per un essere umano di sesso maschile che, notoriamente, quando ha una fanciulla davanti pensa solo ad una cosa. Perciò voi che amate le ciarle, le confidenze, la complicità, e magari il cinema, il teatro e- cosa imperdonabile- i libri, verrete scartate ben presto. Dangerous woman.
Le vostre amiche vi consoleranno dicendo che lui non vi meritava, che non valeva nulla, che era persino invidioso di voi, ma voi vi sentirete comunque Ugly Betty e vi rammaricherete di aver passato il vostro tempo a leggere e guardare film, quando potevate starvene comodamente sedute in poltrona a farvi le unghia ingollando litri di lacrime dei Nemici di Maria De Filippi ops... Amici. Ecco, la stessa dinamica si ripete sul lavoro.
A livelli alti sei tu che paghi loro per lavorare ma per loro i tuoi titoli non sono mai abbastanza quindi, prima di prenderti in stage, non retribuito naturalmente, ti propongo di seguire un corso, a tue spese, per accedere al Grande Fratello degli stagisti. Il migliore, il più motivato di tutti gli sfigati, potrà restare in azienda, per finire poi in strada dopo tre mesi e ricominciare la trafila di cv, lettere di presentazioni, colloqui e umiliazioni.
A livelli bassi, ovvero per lavori generici, o comunque molto lontani da ciò per cui avete studiato, anni luce dalle vostre aspirazioni, vi imbatterete in persone che vi faranno sentire in colpa per esservi diplomate col massimo dei voti. E sentirete nella vostra testa una vocina melliflua sussurrare:"Invece di stare 14 ore sui libri,avresti fatto meglio ad uscire col giocatore di basket della V C...Te lo dicevo io....". Appunto, ma ormai il giocatore si sarà sposato e voi, che avete passato la vostra esistenza sui banchi, cominciate ad architettare il vostro suicidio. "Beh, potrei salire su una pila di libri di Dostoevskij e Tolstoj e lanciarmi dal tetto del mio palazzo, almeno la cultura mi servirebbe a qualcosa, non sarebbe tutto perduto", penserete. Ma non è il caso di arrendervi così, senza lottare.
I personaggi dei romanzi e dei film che abbiamo amato di più ci insegnano che vi sono mille modi per aggirare gli ostacoli, qualora non possiamo superarli, e ottenere comunque ciò che desideriamo senza che lo strano mondo, in cui, nostro malgrado, ci troviamo a vivere, ci si rivolti contro. E'sufficiente mentire, falsificare, taroccare il nostro cv a seconda dell' annuncio di lavoro al quale avete deciso di rispondere. Questo almeno in campo lavorativo...E che Quelo ce la mandi buona!
Per quanto riguarda gli uomini, vi avverto: non c'è rimedio. Partendo dal presupposto che la loro intelligenza è meno sviluppata della nostra a prescindere, sarete costrette a fare un'accurata selezione e a scegliere, sempre che non siate particolarmente fortunate, il male minore, sperando che l'aspirante compagno ideale non vi scarichi, dopo qualche tempo, per una shampista o che non vi abbia scelto come amante perché a casa ha la cameriera-gheisha che lo aspetta.
Il proverbio secondo il quale dietro a un grande uomo c'è sempre una grande donna è passato di moda. Ormai dietro a un grande uomo c'è un'associazione a delinquere di stampo shampistico con l'aggravante della gatta morta...
Lasciate ogni speranza, o voi, povere illuse.

domenica 16 ottobre 2011

La protesta continua: Gli indignati non si arrendono

L'orda di barbari che ha ieri ha travolto la Capitale è ormai un lontano ricordo. San Giovanni in Laterano, la piazza teatro dello scontro, sembra essere tornata alla normalità. Il corso è affollato. I romani entrano ed escono dalla Coin, a pochi passi dalla piazza. E molti vanno a messa nella Basilica. La segnaletica stradale in alcuni punti è divelta. In altri manca del tutto. E'stata sradicata. All'ingresso della piazza c'è un fosso lasciato dai sampietrini che gli incappucciati hanno usato come armi. Non tutte le pietre sono state rimosse. Qualcuno ha abbandonato il proprio sampietrino- che non è un normale cubetto di porfido, ma è un blocchetto di pietra abbastanza consistente- sui davanzali della chiesa. Altre pietre si trovano agli angoli della piazza. Insomma, i neri hanno lasciato il segno. Ma non sono riusciti nel loro intento. Perché la protesta va avanti. Si è solo spostata qualche metro più in là. Davanti alla Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme si è formato un piccolo accampamento e una cinquantina di persone, da oggi pomeriggio, sono riunite in assemblea.
Il momento di condivisione previsto in piazza San Giovanni, infatti, c'è stato eccome. I pochi partecipanti, i temerari che non hanno desistito, si sono organizzati e si sono dati appuntamento per oggi con l'intento di darsi una regola, di strutturarsi e portare avanti il movimento nato dalla manifestazione. Le varie anime che ieri hanno sfilato in piazza, ossia i gruppi che si sono costituiti negli ultimi tempi, sono confluiti in un'unica assemblea. Ma formalmente si sono sciolti. Perché ciascun indignato parla per sé. Partecipa alla rivoluzione pacifica e democratica come singolo cittadino. Questo è il link del blog creato dagli Indignati romani:http://italianrevolution-roma.blogspot.com/. Qui si possono trovare tutte le informazioni sul movimento, sulla protesta e sull'organizzazione.
Per ora sono previste due assemblee a settimana, una il mercoledì e l'altra la domenica, nel corso delle quali si parlerà, si avanzeranno proposte e si cercherà di costruire un'alternativa sociale al sistema esistente. Parola d'ordine condivisa da tutti: concretezza. Le assemblee sono state strutturate e regolamentate. Chi voglia intervenire deve prenotarsi. Non è consentito interrompere chi parla e per approvare o disapprovare le proposte che vengono fatte nel corso della discussione sono stati stabiliti dei gesti. "In modo che non si crei casino", mi spiega Daniela, una ex drago ribelle. La ragazza mi ha illustrato rapidamente gli interventi del pomeriggio e ha aggiunto: "Tra tutti gli interventi mi ha colpito molto quello di una signora anziana che ha vissuto sotto il fascismo, ha fatto la resistenza e ci ha incitati ad andare avanti".
In assemblea, intanto, un ragazzo fa notare che su Facebook ci sono molti gruppi filo-indignati che dovrebbero essere coinvolti. "Bisogna creare un movimento unico, dobbiamo unirci!". Gli indignati si stanno organizzando, dunque, hanno già creato delle commissioni che lavoreranno per contrastare la violenza, un comitato che si occuperà dei rapporti con la stampa e hanno chiesto, a chiunque ne abbia voglia, di contribuire alla protesta con coperte, cibo e docce da offrire agli accampati. A Roma fa freddo. Stasera in modo particolare. Ma gli indignati non si arrendono.

Da Woodstock agli anni di Piombo: doppiamente indignati

Sapevo che ci sarebbero stati degli scontri. Massimo Gramellini, dalle colonne della Stampa, aveva invitato tutti ad evitare la violenza. Altri paventavano addirittura una seconda Genova. Non pensavo, però, che si sarebbero avverate le profezie più nefaste. Qualcuno aveva cercato di dissuadermi dal partecipare alla manifestazione, ma io non mi sono certo lasciata intimorire dalle probabili esplosioni di violenza e alle 13 sono partita da Tiburtina per ricongiungermi con le mie amiche a piazza della Repubblica.
I vagoni della metro erano stracolmi di manifestanti. Ragazzi provenienti da tutte le regioni di Italia. Ho viaggiato accanto ad un gruppo di studenti toscani, tra loro c'era una ragazza paffutella, col volto rubizzo, vestita di bianco, che teme la folla a causa della sua claustrofobia. Il resto del gruppo faceva di tutto per aiutarla, durante il tragitto in metro le soffiavano l'aria volto in modo che non avvertisse quella sensazione di oppressione, pericolosissima per i claustrofobici. Le ho sorriso e, quando siamo arrivati a Termini, l'ho fatta passare avanti. Aveva bisogno di respirare. Come immaginavo, però, alla stazione Termini c'era meno aria che nella metro. Un interno popolo di indignati si stava muovendo. Bandiere colorate, urla di gioia, visi dipinti, canzoni stonate e mascheroni raffiguranti i politici. Un flusso di allegria e vitalità stava per affluire nelle strade di Roma. Fuori dalla stazione ciascun gruppo ha preso la sua strada. La ragazza col maglione bianco, finalmente, sorrideva serena sotto il sole caldo di Roma.
Ho alzato il passo, prima che Erica mi richiamasse all'ordine; l'appuntamento era per le 13.30 davanti alla Feltrinelli International. Piazza della Repubblica era puntellata di gazebo. Partiti, movimenti e associazioni. C'era anche un gruppo di disabili pronti a sfilare in corteo. Con lo sguardo cercavo i carri del Teatro Valle-Palazzo, ma non li vedevo. L'unico carro che sono riuscita a scorgere è stato quello del 9 aprile, ovvero il carro dei precari. Ma ho proseguito velocemente alla volta del mio gruppo di indignate.
Eccoci qua, ancora una volta, dopo tre anni dalla laurea, chi è disoccupato in cerca di lavoro, chi un lavoro ce l'ha ma non ha un contratto regolare ed più che precaria, chi studia ancora...Ci aggreghiamo al carro colorato, ai lavoratori dello spettacolo e della conoscenza, ai ragazzi del Valle, uno dei teatri più belli di Roma- il Valle è stato costruito nel 1700, ad esso (e non mi stancherò mai di ripeterlo) è dedicata un'intera via nel cuore della Capitale, ma i signori capitalisti, rozzi ed ignoranti (per non dire altro), volevano trasformarlo in un ristorante- occupato da giugno, del Cinema Palazzo e agli studenti della Sapienza. Sul carro Lady Finanza, una procace dama francese dell'800, e una figura esile mascherata danzano a suo di musica, tutt'intorno volano palloncini colorati e qualcuno srotola un drappo rosso, un drago, proprio come i "Draghi" colorati che si aggiungono al corteo. Siamo già in tanti quando arriviamo a Termini.
Ci muoviamo lentamente e accanto a noi campeggiano striscioni della Fiom. Qualcuno fa volare altri palloncini colorati a forma di gallina e di pesce. Dal carro di levano voci di precari, indignati, lavoratori della cultura arrabbiati, persone che, come noi, vorrebbero essere retribuite per il lavoro che svolgono con la propria mente ma, pare, non ne abbiamo il diritto. In corteo sfilano famiglie intere. Mamme e padri giovanissimi con i loro bambini. Carrozzini. Ragazzini sulle spalle dei genitori che sventolano bandiere rosse. E'tutto così colorato e sereno che mi sembra davvero di trovarmi a Woodstock e invece sono a Roma, in Via Cavour, sotto un sole autunnale che non è mai stato così splendente.
Il ritmo della musica cambia, si balla. Sorridiamo, ci divertiamo, ci nascondiamo sotto il drago rosso e alziamo le braccia. "Come facevo da piccola, quando mia madre piegava le lenzuola", ricorda la mia amica Stefania. E'vero siamo preoccupate, è vero non vediamo un futuro, siamo indignate, seccate, stanche di non avere risposte, prospettive e sicurezze, ma oggi sorridiamo. Non possono privarci anche del sorriso. Dal carro Fulvio, uno degli animatori della protesta del Valle, parla di chi lavora con la mente, di chi è dotato di immaginazione, di chi, come noi, svolge o meglio, vorrebbe svolgere, un lavoro intellettuale.
Molta gente si affaccia alla finestra. Applaude. Espone striscioni. Condivide la manifestazione. Persino delle donne anziane, rinchiuse in una casa di riposo, ci salutano e qualcuno urla:"Scendete giù venite anche voi". Il corteo è all'inizio di in Via Cavour, sto per ritornare sotto il drago rosso quando da una stradina laterale, da un vicolo, vedo avanzare una macchia scura seguita da uno striscione rosso. Stefania aggrotta le sopracciglia. Penso che non dovrei preoccuparmi. Lo striscione è rosso, sono ragazzi come noi, altri manifestanti, provenienti da altre zone di Roma, che vogliono aggregarsi al nostro corteo. Ma sono neri, incappucciati e Stefania spinge me e Luana, un'altra amica, fuori dal cordone principale del corteo. "Via, scappiamo!", grida. Ci mettiamo al riparo in una via laterale.
Loro, i teppisti, li hanno visti bene. "Sono incappucciati, hanno delle cose in mano", mi dicono. Spranghe, mazze. Dal carro i ragazzi del Valle si ribellano. "Via via", urlano agli infiltrati. "Andate via, questa è manifestazione pacifica. Vergogna!".
Non ho capito bene cosa stesse accadendo in quel frangente. Ero occupata a fuggire, ma ho visto di sfuggita la macchia nera che avanzava. Dopo un po'credevo che il pericolo fosse scampato. Che si potesse procedere con la manifestazione. Invece, una volta arrivata all'altezza della metro in Via Cavour, ho capito che era iniziata la guerra. Vetri a terra, macchine incendiate. Un negozio di alimentari saccheggiato. Hanno lanciato di tutto contro la vetrina, bombe molotov credo, bottiglie maleodoranti, pomodori e uova marce. Era tutto distrutto. I proprietari, basiti, stavano immobili davanti ai vetri in frantumi, mentre i flash dei fotografi professionisti e non immortalavano lo scempio.
Stefania ha accesso la radio. "Vediamo cosa succede", ha detto. Radio Popolare trasmette la manifestazione in diretta. Parlando di scontri. Cariche della polizia ai manifestanti. San Giovanni, il punto di arrivo della manifestazione, è stata tramutata in un teatro di guerra, e lo stesso vale per le vie d'accesso alla piazza.
Cominciamo a chiederci cosa fare, se proseguire o meno. Abbiamo perso Erica. Intanto sul carro sale Franky HI Energy, il suo rap travolge tutti. Sulle note di "Quelli che ben pensano" balliamo e cantiamo. Noi ci distraiamo e seguitiamo a manifestare pacificamente, ma nel resto della città la guerra prosegue. "E'guerriglia urbana", sentenzia Stefania. Via Labicana, Via Merulana e Piazza san Giovanni sono in fiamme. Che fare?
Sono stati loro, gli incappucciati, a fare casino. Lanciano pietre, bombe carta, molotov. Si scagliano contro polizia e carabinieri. Ma il nostro corteo, i ragazzi del carro, sono del tutto ignari di quello che sta accadendo. Erica va avanti con gli altri. Noi, a causa degli scontri, decidiamo di fermarci. Arrivano le prime telefonate di parenti allarmati. Ci rifugiamo a Monti. Il quartiere è pieno di polizia. Camionette da ogni lato e agenti presidiano i vicoli stretti intorno al Colosseo. Dalla radio giungono notizie inquietanti. Un blindato dei carabinieri in fiamme, sempre a San Giovanni. Manifestanti pacifici che trovano riparo all'interno della Basilica. Camionette della polizia che investono gli stand. La manifestazione è finita. E noi che, dopo aver ascoltato gli interventi a Piazza San Giovanni, avremmo dovuto proseguire la giornata di festa a san Lorenzo, ce ne stiamo sedute in un Caffè nella piazza della Madonna di Monti ad ascoltare gli inviati di Radio Popolare. Mi sembra di rivedere i video delle manifestazioni degli anni 70'. Comincio a temere che ci scappi il morto. Mio fratello a telefono mi racconta le immagini che vanno in onda su Sky. Gente che ha perso l'uso degli arti. Palazzi in fiamme.
Violenza inaudita, ingiustificata. Violenza fine a sé stessa che ha impedito a noi indignati di manifestare il nostro disagio. Eravamo in 150 mila. Non si era mai vista una partecipazione del genere. Ma cosa si dirà di questa giornata? Di cosa si parlerà? Degli scontri, solo di quelli. Noi tutti, giovani senza futuro, ancora una volta, saremo dimenticati. Nessuno citerà quei disabili che hanno sfilato per le vie di Roma. Nessuno parlerà degli operai della Irisbus, degli studenti universitari e dei ragazzi delle superiori. Grazie agli incappucciati, violenti, che hanno fatto il gioco del Palazzo, la manifestazione è stata delegittimata. Ci hanno tolto uno spazio di confronto democratico, quanto meno più evidente di altri che, comunque, sono stati presi e conquistati con l'occupazione. Quindi non è tutto perduto, credo. Ma il segnale che si doveva dare ieri, un segnale di protesta costruttiva, un'alternativa sociale, quello è andato in fumo con le camionette della Polizia. Non voglio fare il Pasolini della situazione, ma la Polizia, i carabinieri, sono più proletari dei neri-incappucciati. E'gente che ha subito tagli alle auto, alla benzina, che lavora in condizioni pietose, mentre i rappresentati del governo si riempiono la bocca di Politiche per la sicurezza. Ma quali politiche e quale sicurezza se questa gente non ha la benzina da mettere nell'auto per andare ad acciuffare i lestofanti né per andarli ad interrogare o a cogliere sul fatto quando è necessario!
"Erano ragazzini, adolescenti e spaccavano le vetrine con i martelli", racconta in maniera concitata una signora su Via Cavour. Il ritorno a casa è un calvario. Monti era un'isola all'interno della città in fiamme. C'era chi si faceva tagliare i capelli dal barbiere con le camionette dalla polizia alle spalle e chi trangugiava pizza e gnocchi anche se da un tavolo all'altro rimbalzavano notizie sempre più agghiaccianti sugli scontri di piazza.
Quando siamo tornate in Via Cavour, ho avuto la dimensione di quanto era accaduto. La strada era tutta bagnata a causa degli idranti.Il fumo scuro si levava dalle carcasse delle macchine bruciate e imbrattate. Turisti stranieri si facevano fotografare davanti ai relitti. Una cartolina dell'Italia violenta è un ottimo souvenir. Tanto più che nei loro paesi non è accaduto nulla.
Gli incappucciati avevano spaccato le vetrine delle banche, delle gioiellerie e dei negozi. Pensavano di colpire i simboli del capitalismo. Ma, mio avviso, non sono preparati neanche su questo. Le firme e gli slogan usati come rivendicazione la dicono lunga sul loro conto. Stelle a cinque punte (Br), "A" di anarchia, e falci-martello sono apparse su muri e porte infrante. Hanno voluto tirar fuori dagli armadi degli anni di piombo degli spauracchi e disseminarli random sui muri della Capitale. Segno che questa gente non ha un'identità né un colore definito ma si nasconde dietro le effigi di passato, mai davvero passato, per giustificare la propria barbarie.
"No control"-"Sfruttatori". In questo modo si espressi i misteriosi incappucciati. Oserei dire roba da no global, ma sarebbe una nobilitazione del loro pensiero. Inizialmente ho pensato che fossero i soliti fascisti violenti che, di solito, picchiano gli studenti durante le manifestazioni. Poi ho compreso che sono peggiori di quelli di Forza Nuova. Si tratta di cialtroni che si servono di slogan dei quali non conoscono neanche il significato.
A me non sembra una violenza così organizzata come ho sentito dire in giro, quanto meno nelle idee e nelle motivazioni, credo sia sullo stesso piano delle peggiori tifoserie calcistiche. Non amo la dietrologia, ma vorrei capire perché solo la manifestazione italiana sia stata boicottata. Ci pensavo camminando in una via spettrale e maleodorante, Via Cavour. Drappelli di manifestanti con le bandiere ammainate ritornavano mesti verso casa. Su un marciapiede, in lacrime, ho intravisto la ragazza paffuta dal maglione bianco. L'allegro gruppo di toscani aveva il broncio. Chissà, forse, sono rimasti coinvolti in qualche tafferuglio. Questi ragazzi dalle facce pulite e sorridenti volevano rivendicare il diritto allo studio e al futuro e sono stati travolti da un'orda di barbari. La stazione Termini è avvolta in uno scuro drappo di tristezza. Sulla capitale è scesa la notte, nonostante tutto. Il sole è stato inghiottito dal fumo nero e ha lasciato il posto al gelo. Fa freddo.
Una marea umana assiepata lungo le banchine della metro discute di quanto accaduto. C'è chi racconta col terrore sul volto i fatti di Piazza San Giovanni. "I manifestanti pacifici si sono trovati tra la Polizia e i Black Bloc!", asserisce una ragazza bionda che porta uno zainetto sulle spalle. E spiega:"Siamo stati braccati anche noi, non potevamo muoverci, avevamo polizia da tutti i lati. Non c'erano vie di fuga". Ecco chi erano, i Black Bloc, penso. Eppure non ne sono molto convinta. Me li ricordo i Black Bloc a Genova, e quei ragazzini incappucciati non gli somigliavano affatto. Non so. Sapevano come muoversi in città. Conoscevano bene le vie d'accesso e di fuga. Se non erano organizzati sul piano ideologico quanto meno da un punto di vista strategico sono stati astuti, al contrario della Polizia che è apparsa, almeno a quanto ho potuto apprendere dalla radio, abbastanza impreparata e disorganizzata.
Quando arrivo a Tiburtina sono le 20 circa. I negozi stanno chiudendo. Macchine e autobus percorrono la strada illuminata dai neon. Vista da qui Roma è serena. Una serata autunnale come tante. La gente passeggia, qualcuno sale sull'autobus, qualcuno entra in un bar e il sabato sera scivola via. Ma basta accendere la televisione per capire che è solo apparenza. Per strada gli scontri continuano e, al di là della polemiche, a noi non resta che un pesante fardello di tristezza. Oggi vado a San Giovanni, poi scrivo.

domenica 2 ottobre 2011

Giù le mani dalle panchine!

La panchina che sia di legno, di ferro o di marmo, per me, è un rifugio. Uno spazio al di sopra di altri spazi. Il motore immobile che ti permette di percepire il movimento del mondo. La panchina è il luogo del silenzio, della contemplazione e del pensiero.

La scelta della panchina giusta non è semplice. Io, ad esempio, a Villa Torlonia, ho la mia panchina preferita. Quasi all'ingresso, al centro dello spiazzale ai piedi della gradinata. Questo è il mio eremo torloniano, qui ho letto i libri dei miei autori preferiti. E guai a chi osa muovere, anche solo di un centimetro, la mia panchina. Sono dell'avviso che le panchine siano come dei monumenti. Non si toccano. Non si imbrattano. Non si spostano. La panchina è nata per essere adotta, ma è anonima di per sé e non si deve adattare alle esigenze chi vi si siede, semmai il contrario.

Spostare una panchina è un atto di hybris, solo dei tracotanti posso macchiarsi di un peccato di tal fatta. "Sedendo e mirando, interminati spazi, al di là da quella, e sovrumani silenzi"... Leopardi, quando ha scritto l'Infinito, si sarà seduto su una panchina dalla quale era possibile vedere la famosa "siepe". Ora, mettiamo che Leopardi, come spesso accade, non avesse terminato il suo scritto in una sola giornata. Se, il giorno seguente, qualcuno si fosse permesso di spostare la panchina del Leopardi, trattandola come una sedia qualunque sulla spiaggia, e cioè l'avesse sottratta all'ombra per metterla al sole, secondo voi oggi avremmo potuto godere di quel capolavoro della letteratura che è L'Infinito? Secondo me, no. Perché lo sguardo di Leopardi sul mondo sarebbe mutato e la sua idea iniziale di certo sarebbe andata perduta. Neanche il protagonista del romanzo La Morte a Venezia che, tuttavia, sedeva su una sedia sul lido di Venezia, si è mai sognato di cambiare posizione per spiare il suo amato.

Sulle panchine nascono storie, racconti, poesie. Qui si svolge la prima fase del lavoro di uno scrittore: il furto di una vita. Si fanno incontri, amicizie e, a volte, può capitare anche di conoscere persone e apprendere vicende davvero molto interessanti. La panchina è luogo di isolamento e condivisione ma ha delle regole molto rigide che vanno rispettate. Altrimenti il miracolo dell'arte non si compie.

Spostare una panchina in un parco significa mutare gli equilibri di un mondo abitato solitamente da chi vuole sottrarsi al rumore del traffico e al via via delle strade, per dedicarsi alla contemplazione e riappropriarsi del kairos che, per i greci, è diverso dal kronos.
Il Kronos è il tempo misurato secondo la quantità, il kairos invece indica la qualità. E' il tempo giusto ed ha un valore inestimabile. Perché è il tempo in cui si attende che accada qualcosa, che avvenga magari un'epifania. Il kairos è il tempo della meraviglia.

Mi viene in mente la scena del film Miracolo a Milano in cui i due protagonisti si mettono seduti davanti al tramonto e si godono, a bocca aperta, lo spettacolo della natura come se fosse una piece teatrale. Magari sono stati seduti anche per poco, forse mezz'ora, ma quel tempo, in cui hanno provato emozioni forti, intense e hanno ammirato la bellezza, a loro è parso interminabile e lo ricorderanno per sempre. Penso, ancora, alla panchina del romanzo Caos Calmo sulla quale il protagonista ripercorre la sua vita e incontra, guardandole con occhi diversi, le persone che ne fanno parte. Rivedo nella mia mente la panchina di Villa Ada, dove è nata la narrativa dello scrittore Niccolò Ammaniti:"Negli anni del liceo ho passato un mucchio di pomeriggi seduto su una panchina di Villa Ada...Ma a Villa Ada ho conosciuto il Guzzini...Ho passato ore ad ascoltarlo" ( Prefazione di "Aspetta Primavera Bandini" di John Fante). Ma La mia panchina letteraria prediletta rimane quella che, nelle Notti Bianche di Dostoevskij, accoglie il sognatore e la sua adorata Nastenka.

La posizione di una panchina, la sua presenza in un determinato angolo di un parco o di una strada, è del tutto casuale e tale deve rimanere per poter incidere sulla nostra percezione. A Dublino, addirittura, ad una panchina è stato dedicato un monumento, perché su di essa era solito sedersi James Joyce insieme con suo figlio. In quel luogo e in quel preciso momento, per l'autore dell'Ulisse il tempo si cristallizzava. Esistevano solo lui e il suo amato figliolo. Nessuno poteva entrare in quello spazio privato delimitato da una panca qualunque.

Il tempo della panchina è il kairos. E'un tempo che non ha durata ma intensità. Non si misura con l'orologio. Ed è l'unico tempo che ci appartiene davvero. Il kairos è il tempo dilatato dell'anima che necessita di uno spazio fisso, privo di movimento. Perciò, tutti coloro i quali, nei parchi, nelle ville, nei giardini, nei luoghi pubblici, osano spostano arbitrariamente una panchina, sappiano che stanno violando le leggi più profonde del Cosmo.

(Su questo argomento consiglio la lettura di Beppe Sebaste: http://www.beppesebaste.com/articoli/sulle%20panchine.html).