mercoledì 28 settembre 2011

Campionesse di arrampicata col tacco....

Non ho mai amato le persone che, prima di uscire di casa, fanno un bagno di profumo. Per non parlare degli uomini amanti delle docce di dopobarba e deodoranti di vario genere. Tuttavia mi piace annusare le scie profumate per strada e indovinare a chi appartengano. Tanto più in città, dove la sopravvivenza dell'olezzo griffato è quasi un miracolo; lo smog sbaraglia la concorrenza. E, ieri, inseguendo profumi, mi sono imbattuta in un atleta.

Qualcuno mi è passato accanto. Un'onda di Dolce&Gabbana mi ha travolto inducendomi a cambiare rotta. Ho superato due ragazze, straniere, reduci dallo shopping in centro, e ho provato a tener dietro al profumo dolciastro, ma fortissimo, che mi ha riportato ai tempi del ginnasio; la mia insegnante di greco mi si è materializzata dinanzi in uno dei suoi tailleur bianchi e blu con le versioni tra le mani. Un rigurgito d'ansia e paura si è impadronito di me. Ma l'ho scacciato alzando il passo. E sono entrata in un'altra area profumata.

Una nuvola di deodorante delicato, fresco, mi ha avvolta. Ho abbassato lo sguardo e, davanti a me sono apparsi degli oggetti non ben identificati...Due blocchi di sughero adorni di plastica verniciata di verde. Sandali altissimi. Scatole di truciolato, ad occhi e croce anche abbastanza pesanti, che si muovevano rapidi sull'asfalto. E, in cima a questi bolidi della calzature, una donnina esile in jeans e canotta.
La ragazza, curva da un lato, forse a causa della borsa enorme appesa alla scapola sinistra, procedeva spedita. Non si è fermata un attimo. Anzi, ha doppiato persino un giovane uomo pelato in giacca e cravatta che, con la schiena dritta e la pancia in dentro, affrontava la salita come un alpinista consumato. Lui si guardava intorno pavoneggiandosi. Credeva di non avere rivali. Ma, quando la donna sui trampoli gli ha fatto masticare la polvere, si è voltato e ha fatto una smorfia di disappunto, quasi a dire:"Come osi sfidarmi, vermiciattolo spuntato dal nulla!". Poi, però, le ha guardato i piedi e ha biascicato un complimento.

Ho continuato seguirla. Mi sono avventurata in pericolosissimi slalom e dribbling tra borse, pacchi e valige sul ponte della Tiburtina. Odori sempre più acuti e sgradevoli si spiaccicavano sulle mie narici, ero affaticata, stanca e sudata ma andavo avanti. Volevo vedere fino a dove era in grado di condurmi la mia eroina ed ero curiosa di sapere chi avrebbe vinto quella maratona tra pedoni della Tiburtina.

L'uomo Dolce&Gabbana mi ha sfiorato un braccio, l'ho riconosciuto, ma non ho avuto il tempo di osservarlo, si è dileguato subito lasciandomi in balia della velocista sui trampoli e degli scarichi d'auto e moto. La velocista camminava impettita, sicura e baldanzosa. I suoi piedi, tavolette inermi laccate di rosso alle estremità, erano incollate ai due troni di legno. I capelli castani che le ricadevano sulle spalle non partecipavano al movimento del corpo. Ma lei era in testa. Stava vincendo e non aveva rivali. Nessun altro concorrente era riuscito a doppiarla fino a quel momento. Le ragazze con le buste erano lontanissime, l'uomo dolce&Gabbana aveva rinunciato a seguirci, il pelato incravattato si era fermato in un angolo a rosicare e io...Io ho cominciato a rallentare. Ma non l'ho persa d'occhio.
La maratoneta dalla chioma imbalsamata ha svoltato a destra. La gara era ormai finita. Aveva vinto. Ma non era soddisfatta. E, prima di salire sul podio, non ci ha risparmiato neanche l'ennesima umiliazione. Ha tirato fuori una scartoffia appallottolata dalla borsa e, con un calcio leggero ma preciso, l'ha spedita in un piccolo bidone dell'immondizia. Sono rimasta a bocca aperta mentre lei, sculettando sui suoi trampoli, è sparita dietro ad un palazzo stinto.

Leggendo questo post, qualcuno dirà:"Non è vero,si è inventata tutto, se l'è immaginato". No, cari miei. E'tutto vero. E'accaduto davvero! Non ho sognato di partecipare ad uno spot dei cereali Fitness Nestlé. Né stavano girando la reclame dell'Acqua Vita Snella sulla Tiburtina, la signorina era un'attrice e io, tonta, non me ne sono accorta. Vi sbagliate. Non è andata così. Non mi credete? Peggio per voi.
Io ho assistito, in diretta, e gratuitamente, all'ultima impresa della campionessa romana di arrampicata sul tacco. E questa è la cronaca (reale) dell'evento sportivo firmata da me.
Noi donne siamo capaci di compiere grandi imprese stando in bilico su un paio di tacchi altissimi. Niente ci può fermare!

lunedì 19 settembre 2011

The sound of silence

Percorro le strade che conosco da tempo. Sono sola e mi giro intorno alla ricerca di quella che ero, della ragazza che sono stata un tempo, e mi domando chi sono oggi. Attraverso la strada col rosso, perché il verde per i pedoni non scatta mai, e intorno a me scorgo molta gente a telefono. Mi specchio in loro. Mi sembra assai strano non essere anche io attaccata ad un cellulare. Come se non avessi più nulla da raccontare. Mi domando perché questa gente deve comunicare con gli altri ogni secondo della sua giornata. Cosa avranno sempre da dirsi tutti?
Non molto tempo fa avvertivo l'esigenza di narrare a voce a chi ritenevo speciale le mie scorribande romane. Poi ho capito che gli interlocutori prescelti erano speciali solo per me e forse non erano nemmeno interessati alle mie peripezie per le vie della Capitale.
Crescere vuol dire imparare a tacere. Centellinare i discorsi e le parole e scegliere i propri compagni di conversazione in maniera responsabile senza lasciarsi guidare dall'illusione. I nostri racconti non devono essere molesti ma benaccetti. Ogni narratore vorrebbe degli ascoltatori attenti ed entusiasti. E non solo cortesi ed educati. L'atteggiamento passivo e paziente, remissivo e poco reattivo, si riassume con la parola "sopportazione". Tolleriamo qualcosa che non ci piace solo per non dare un dispiacere all'altro. Non c'è cosa più umiliante che essere compatiti.
Se qualcuno, dunque, vorrà sapere cosa abbiamo da dire, chiamerà. E se il telefono non squilla? Pazienza, ci godremo il piacevole suono del silenzio, un tesoro che ciascuno di noi dovrebbe riscoprire giorno dopo giorno e custodire gelosamente.

domenica 18 settembre 2011

Rinascere

Ripartire. Rinascere. Ricominciare. Tutti verbi che indicano un nuovo inizio. Un'azione già compiuta in passato che si ripete. Prendere la valigia e partire. La meta è l'unica certezza che si ha, il resto lo lasciamo fare al fato. Ma è importante lasciarsi alle spalle il passato e preparasi a cambiare di nuovo, ancora una volta, in modo diverso, sperando che adesso vada meglio. Non mi sento una "coraggiosa" né un'eroina dei fumetti, ma solo una ragazza in cerca della felicità, tre anni fa pensavo di trovarla in Basilicata. Credevo che ritornare a casa, nella mia terra, fosse la scelta giusta. Ma adesso mi chiedo se io sia mai tornata davvero. Credo di no. Mi sono solo rifugiata nel passato. Ho fatto un salto indietro. Ho esplorato i luoghi della memoria.
La Basilicata era la mia Arcadia. Pensavo di ritrovare il piccolo mondo antico che avevo lasciato e, per certi versi, così è stato, ma per altri ho toccato con mano una realtà di cui avevo sentito raccontare e alla quale non credevo. "Dopo questa esperienza, sarai incattivita", mi disse il mio amico Paolo a maggio del 2008 davanti ad uno scoppiettante fuoco di ginestre. E, oggi, posso dire che aveva ragione, anche se forse correggerei il tiro: più che "incattivita" direi "agguerrita".
Le mie antenne sono più dritte che mai. Mi sono messa alla prova, ho lottato, ho provato a resistere, ad arginare la mia sconfinata curiosità che mi porta ad essere raminga, solitaria ed inquieta, ma non ci sono riuscita, o meglio, non fino in fondo. Sentivo che non poteva essere Potenza l'ultima stazione del mio viaggio. No, il treno sul quale ero salita aveva ancora molta strada da fare. Il capoluogo della mia regione, e il mio borgo natio, erano stati una tappa da rifare. Un ritorno quasi naturale per poter guardare con disincanto luoghi avvolti in una nebbia di nostalgia per un passato che non ritornerà, perché nelle storie non cambiano solo le vite dei personaggi ma anche gli scenari mutano, si modificano col passare del tempo. Ma in ciò che è stato si può ritrovare con più forza ciò che si è e, soprattutto, ciò che si vuole essere.
In questi tre anni mi sono specchiata nella specchiera di Barbie riposta nella mia soffitta ricolma di giochi, libri del liceo e ritagli di giornale. Ho camminato ancheggiando sui miei vecchi tacchi con una penna in mano e un codice penale in tasca (e ormai in testa). Sono stata dove volevo essere, in tribunale. Ho avuto gli insegnanti e l'insegnamenti che desideravo, non faccio nomi, ma sono i migliori. E mi reputo soddisfatta.
Non vado via con l'amaro in bocca, mi congedo assaporando dolci ricordi. Il mondo di affetti del cubo grigio di cemento, dove certi giorni non passano mai e il cielo terso e limpido ti sembra un miracolo che entra dalla finestra, mi mancherà. A cominciare dal proprietario della copisteria che ogni mattina mi ospitava nel suo parcheggio credendomi un avvocato ( e non ho mai osato contraddirlo) sino alle segretarie e agli impiegati della Procura e all'avvocato Laurita che, appena mi vedeva, mi informava sugli spostamenti dei miei colleghi all'interno del Palazzo.

Non so ancora cosa mi aspetta. Disfo la valigia e dico a me stessa che, di certo, dovrò cambiare di nuovo guardaroba, usare con parsimonia i tacchi, perché ci sarà di nuovo da camminare tanto (per la mia gioia), che finalmente potrò scegliere uno stile più personale, meno formale, che la mia vita sta per cambiare di nuovo e questa volta sono davvero sola ed è giusto che sia così, che devo imboccare una strada che sia una, che sto facendo le prove generali per la felicità, l'unico Messia di cui attendo la venuta, ma tutti quei signori e quelle signore là, avvocati, avvocatesse, praticanti, magistrati, ufficiali di pg, cancellieri, uscieri, imputati, colpevoli e innocenti, i loro parenti, anche quelli ingombranti, incensurati e delinquenti, pentiti ("infami") e sfingi silenti resteranno per sempre impressi nella mia mente. Fanno parte della mia vita, della mia storia e li porterò con me comunque vada, ovunque vada.

sabato 10 settembre 2011

Delete

La fine di un rapporto di amicizia nella vita reale coincide con la fine di una relazione nel mondo virtuale. Ormai funziona così. Sembra che i due mondi siano sovrapposti e in qualche modo inscindibili. Mi è capitato spesso di conoscere persone ad una festa o in una determinata occasione e di aggiungerle poi su facebook. Il secondo step della nostra conoscenza è avvenuto proprio attraverso il popolare social network. Un modo comodo e veloce, diciamo pure poco impegnativo, a volte, per approfondire una conoscenza. Scambio di link, di opinioni, frasi, articoli e canzoni. Sfoghi. Confidenze. Racconti ad un essere virtuale che in certe circostanze, quando si è soli e affranti e si ha bisogno di dialogare con qualcuno, può tornare assai utile. Quantomeno lo si sostituisce ad un amico reale. E, in assenza di occhi che frugano tra i pensieri, mani inquiete e voce tremolante, ci si vergogna meno delle proprie esternazioni. In fin dei conti non sono altro che frasi scritte su uno schermo di pc. Parole digitali alle quali, si pensa, verrà dato poco peso. Scorreranno veloci insieme con la serata appena trascorsa, a casa, ciascuno nella sua stanza davanti ad un pc. Insieme ma divisi dallo schermo, un filtro, un muro, un gap che, in certe amicizie, sembra incolmabile. Di fatti lo è se, per uno dei due, l'altro è scomodo. E, anche se a tratti si ha la sensazione di essere molto vicini, in seguito si scopre di essere quantomai distanti e si giunge alla conclusione che il mondo virtuale è una fabbrica di chimere ed illusioni almeno in fatto di relazioni. Ma procediamo per gradi.
Accade spesso che, conoscendosi sul web, quando ci si trova vis a vis si sia assolutamente in sintonia e un rapporto meramente virtuale si tramuti velocemente in una bellissima amicizia.
A me è successo circa un anno fa, quando sono uscita per la prima volta con una persona che avevo imparato a conoscere telematicamente. Mi incuriosiva molto, capita così di rado ultimamente che bisogna approfittarne subito, e io l'ho fatto. Non avevo nulla da perdere, il mio obiettivo era solo fare amicizia, conoscere un'altra persona. E così è stato.
Tra me e l'essere umano in questione c'è stata subito una bella sintonia. Certo, nonostante questo, non è stato affatto semplice essere accettati nella sua vita, entrare a far parte delle sue cose, guadagnarsi uno spazio "vero e sincero" all'interno della sua quotidianità. Peccato, però, che fosse uno spazio meramente virtuale. Perché i veri amici dell'essere umano suddetto erano altri e i fatti mi hanno dato ragione. Non sto qui a raccontare quale emozione ho provato quando il mio caro amico ha biascicato, per la prima volta, timidamente "un ti voglio bene" per telefono; lo ammetto avevo il cuore in gola e non mi capitava da tempo. Ma quella scena, rivista adesso,a rallentatore, mi sembra una stupida illusione. "Era tutto finto", mi ripeto, o forse, allora, era vero ma, ora, non lo è più. Chissà.
Non sto qui, ancora, a ricordare tutte le scemenze fatte insieme, le risate, le serate trascorse a chiacchiere, i pomeriggi a progettare, pensare, ideare, le ultime ciarle fiume in notturna, i pianti, gli abbracci, le paroline dolci e le promesse alle quali, forse, non ho mai creduto davvero e, ora, mi dico: "Per fortuna".
Non mi piace elencare tutti i momenti della costruzione di una presunta amicizia importante ma lo sto facendo e, ripercorrendo le varie tappe di questa odissea, mi domando se la collana d' oro che pensavo di avere in mano non fosse soltanto uno squallido ciondolo di bigiotteria, visto che l'amico ideale mi ha fortemente deluso. La persona alla quale mi ero legata oltre misura tanto da essere quasi gelosa mi ha messa da parte come una chitarra scordata, una bambola rotta, un Sapientino vecchio e petulante. Mi ha voltato le spalle, o meglio, ha tramato alle mie spalle, in silenzio, fingendo essermi ancora amico, di essere dalla mia parte. Ma io che lo conosco meglio di chiunque altro e sono in grado di immaginare le sue espressioni e le sue frasi, so bene quali pensieri, quali meschinità e quali parole astiose e cattive mi ha destinato in questi mesi di silenzio. Io So quali epiteti spregiativi sono stati accostati al mio nome. E questa consapevolezza mi fa più male di ogni altra cosa. Avrei preferito un insulto diretto, un dileggio urlato in faccia, una secchiata d'acqua, piuttosto che una trama ordita in sordina servita con i guanti bianchi in piatti lucidi come specchi argentei.
Dunque mi è toccato correre ai ripari e attuare la soluzione finale. In una parola: cancellare. Come? Tramite i social network. Ti elimino dalla mia vita togliendoti dai mie collegamenti. Estromettendoti da tutto ciò che concerne me, i mie interessi, le mie passioni. Qual è la funzione cardine di un social? La condivisione, che poi è alla base di ogni amicizia.
Cancellare qualcuno dai propri amici virtuali vuole dire non avere più nulla da dividere con quella persona. Sottotesto: non voglio più mettere in comune nulla con te. Non ti voglio nel mio mondo, nella mia koinè. Sei fuori. Trattamento da riservare solo ai traditori.
Quando l'ho subito, in fondo, non l'ho accettato. Mi sono ribellata a modo mio. Non mi sono arresa, mi sono difesa. Sono una guerriera e penso che se vogliamo possiamo cambiare ciò che non ci piace. Non sono pavida, lotto fino alla fine, se tengo a qualcuno o a qualcosa.
Da epuratrice, invece, non ho ottenuto le stesse risposte. L'ostracizzato si è limitato a richiedere l'amicizia su fb, come se fosse l'unico social esistente, e poi stop.
Ma Faccialibro è solo la piazza virtuale più in vista e più frequentata dai "contatti" in comune, ai quali non vuoi far vedere o far capire, è una questione di apparenza, di status simbol, concetti lontani anni luce dall'amicizia. Ergo, anche se a malincuore, credo di aver fatto bene.
Fuori dalla mia vita virtuale chi non è mai di fatto entrato nella mia vita reale e mi ha tenuta ai margini della sua. Delete.

mercoledì 7 settembre 2011

Padre Brand

Sin da bambina consideravo i santi delle simpatiche figurine con le quali giocare. Mia zia Vittorina, anche detta "Zizia", aveva una collezione molto nutrita di santini. Da Santa Lucia a San Rocco, dalla Madonna di Pignola fino alla Madonna Nera e al Sacro Cuore di Gesù...C'erano davvero tutti, persino lui, il santo di Pietralcina. Padre Pio era diventato famoso per le stimmate: piaghe che aveva in comune con Gesù. Insomma Padre Pio sulle mani aveva le stesse ferite del Cristo. Certo la Chiesa non gli credeva. I suoi confratelli raccontavano che di notte Padre Pio lottava con il diavolo. I fraticelli giuravano di aver sentito provenire dalla sua cella urla disumane. Di certo frate Pio non avrebbe gridato in quel modo se gli fosse caduto un calcinaccio in testa, o peggio, se deambulando nella sua cella avesse urtato la scrivania o una seggiola di legno, questo, credo, avranno pensato i suoi confratelli. La causa di quelle urla era inequivocabile: Satana in persona stava tentando Padre Pio che, oltre alle stimmate, si era meritato anche lo stesso trattamento riservato al figlio di dio nel deserto. "Che culo 'sto Padre Pio", dicevo tra me e me mentre mia zia ne decantava le gesta eroiche e mia madre si affaticava a ripetere che lei aveva assistito ad una delle sue ultime messe. "La Chiesa era gremita di gente, lui celebrava alle 5 del mattino!", seguitava, instancabile, mia madre. "Fortunatissimo", dicevo io alla mia bambola e intanto infilzavo le orbite di santa Lucia con una forcina di ZiZia.
La schiera di santi disposta in fila ordinata sul comò di mia zia con al centro la boccetta a forma di Madonna di Lourdes- proveniente da Lourdes, contenente acqua stantia benché miracolosa di Lourdes- cominciò ad ingenerare in me qualche confusione. Posto che San Rocco fosse il santo animalista e Santa Lucia una sorta di Parca versione cristiana fra l'horror e lo splatter, gli altri mi apparivano tutti piuttosto simili. Così arrivai a confondere Padre Pio con Frate Indovino e un giorno, smarrita davanti ad uno strano calendario appeso al muro della cantina, chiesi a mia zia:"Ma adesso c'è anche il calendario di Padre Pio?". Bestemmia. Blasfemia. Non l'avessi mai detto. Mia zia levò un dito al cielo e la sua figura crebbe sino al soffitto. Zizia era una vecchina piccola e incartapecorita con i capelli sale e pepe raccolti sulla nuca ma in quel momento mi appariva enorme. Si era tramutata nella statua della Minerva e mi guardava dall'alto della sua sapienza da Agiografa. I suoi occhi "ghianghi" (tradotto: bianchi ovvero celeste acquerello) mi fissavano severi. "Quello è Frate Indovino, figliò! Chi dì? Mica tiene le mani imbasciate?", disse piccata. Caspita, è vero. Le stimmate! Avevo commesso un errore imperdonabile e mia zia si sentì ferita nel suo animo di educatrice religiosa.
A ben guardare in effetti Padre Pio e Frane Indovino non si assomigliavano molti, l'uno era una specie di Mago Otelma della Chiesa l'altro Paolo Fox Ave Maria...Ma vabbè...Capita. Da allora, però, feci più attenzione alle apparizioni del frate di Pietralcina nella mia vita.
Di pomeriggio, insieme con mia nonna, mi sciroppavo tutte le trasmissioni sui misteri e i casi di cronaca nera italiani. Tra ricostruzioni di delitti e Madonne dal volto insanguinato, di tanto in tanto, veniva fuori l'ultimo miracolo profumato del solito Padre Pio, quello che faceva Wrestling con il Diavolo (chissà se l'ha mai preso per le corna?Mah... Misteri della fede, è proprio il caso di dirlo!). Tutti i "miracolati" del frate dalle mani fasciate sostenevano di aver sentito un forte olezzo di violette-orchidee o fiori viola, il frate evidentemente usava "Glad lavander an violet" molto efficace contro i cattivi odori. Ma nessun redivivo se l'è chiesto almeno fino a che non è arrivato il tempo della beatificazione.
La Chiesa che crede solo ai soldi e mai ai santi o ai criminali interni (preti pedofili), osteggiava in ogni modo Padre Pio. Ma poi deve aver capito che il santo era una inesauribile fonte di guadagno.
Si narra, infatti, che, prima di decidere se inserire o meno la candidatura di Padre Pio tra quelle che continuano il processo di selezione per la beatificazione, l'amministratore delegato della Holding Chiesa S.p.a abbia incaricato l'ufficio marketing di testare il prodotto su alcuni consumatori. L'esperimento è stato condotto anche attraverso i potenti mezzi di comunicazione vaticani da Radio Maria al Tg1. E il responso è stato unanime:"Padre Pio spacca!". Finanche nelle carceri.
Leggenda: RUM: responsabile ufficio marketing. Ad: amministratore delegato.
Dialogo tra il responsabile dell'ufficio marketing e l'ad della Holding giallo-bianca. RUm:"L'indice di gradimento di Padre Pio è pari al 100%. Tutti i nostri consumatori dichiarano di adorare i prodotti con la sua effige. Basta nominarlo per avere versamenti e offerte. Persino l'otto per mille viene versato con più zelo se c'è mister San Giovanni Rotondo di mezzo! Solo Papa Giovanni Paolo II aveva dato questi risultati prima d'ora". Ad:"Senta, e i pellegrinaggi?". RUM:"San Giovanni Rotondo è seconda solo a Lourdes. L'opera romana pellegrinaggi è entusiasta, ha già predisposto nuovi autobus!". Ad:"Perfetto!". RUM:"Ah, un'altra cosa. C'è da registrare un dato non marginale". Ad:"Quale, mi dica?". RUM:"Anche i criminali lo apprezzano molto. Un boss della camorra ha già ordinato 4 statue in gesso del frate e dice che se lo faranno santo ne vuole altre da regalare ai suoi 'cumparielli'..". Ad:"Sì, ma questo se lo tenga per sé. Insomma noi siamo contro la criminalità, cioè nel senso, la nostra strategia di comunicazione prevede questo. Mi raccomando, non si faccia scappare l'informazione con nessuno. Comunque faccia recapitare al contribuente le statue e ne prepari 3 per il dottor Luciano Moggi e Callisto Tanzi. Mi raccomando, solo le migliori!". RUm:"Certo, certo".
Come previsto, la beatificazione, avvenuta il 16 giugno del 2002, fece il pienone. Piazza San Pietro era gremita. Nonostante il caldo e la voce tremolante di Papa Wojtyla la folla accorsa da ogni dove era entusiasta. E, in quell'occasione, il merchandaising di Padre Pio travalicò il confini del Sud Italia e prese ad essere distribuito anche al centro. Comparvero per la prima volta delle bottigliette con l'immaginetta del Santo.
"Acqua di Padre Pio", gracchiava un ambulante napoletano sventolando una bottiglietta blu sotto il mio naso. Io ero in gita col collegio. In piedi sotto il sole caldo di un torrido giugno romano mi interrogavo sul destino del quasi-santo di Pietrelcina. A giudicare dal bagno di folla, Padre Pio prometteva bene. I presupposti per diventare una rock star c'erano tutti, ma anche quelli per essere il brand più forte della Holding Chiesa, roba che il Babbo Natale della Coca Cola a confronto è un principiante. Le suore liquefatte nei loro abiti di cotone bianco sorridevano ed io, stretta nel mio fazzoletto di stoffa rossa che mi ricadeva a triangolo sull'addome, giurai odio profondo al beato rockenroll.
"Ma mica è colpa di Padre Pio, se ne hanno fatto un commercio!". Mia madre provava ad arringare in favore del Santo, difendendolo dalle mie accuse. "Prima che arrivasse lui in chiesa non si era mai vista un cassetta di offerte accanto ad una statua. Vicino alla sua non solo c'è la casetta, ma è indicata anche la cifra da inserire per far sì che si accenda la luce. 1 euro!!Capito? Ladro!", replicavo io battendo i pugni sul tavolo e procacciandomi il favore della fazione anticlericale della mia famiglia.
Zizia mi guardava di sottecchi da una foto a colori. Se fosse stata presente mi sarebbe saltata addosso e mi avrebbe graffiato la faccia. "Nipote degenere", deve aver pensato mentre in cielo si rifaceva le trecce e spettegolava con Santa Lucia. "Tu a quelli non li vedi. Ma m nvod s'è fatta inzollente assai!". Santa Lucia, memore delle mie angherie, annuiva rancorosa e, in segno di approvazione, sollevava il piattino contenente gli occhi e lo puntava (dall'alto) verso di me, per rinvenire sul mio volto i segni della devianza. "Giovani di oggi, Vittorina. Non hanno rispetto nemmeno per i santi", diceva a mia zia la Santa orba.
Ma non era tutto. Ad accrescere la mia antipatia nei confronti del beato di Pietralcina che, intanto era stato fatto santo, contribuì un'altra apparizione assai strana nella mia vita.
I due dipendenti della Chiesa S.p.A dovevano essersi sbagliati o forse anche nella criminalità si era sparsa voce del talento del santo campano. Fatto sta che persino la mafia calabrese era stata contagiata dal "fenomeno di Padre Pio". Tutta colpa di Radio Maria, pensai quando vidi nel cortile di un affilato ad una 'ndrina di Isola capo Rizzuto una statua enorme del frate con le stimmate.
Il boss era religiosissimo. Rosari e madonne sbucavano da ogni dove. Aveva i santini persino nei pantaloni. Affidandosi ai santi forse pensava di ritardare la sua morte. Sulla sua testa pendeva una condanna in terzo grado emessa dal Tribunale della Mafia. Aveva commesso un delitto, doveva pagare. E i mafiosi non fanno sconti a nessuno, nemmeno per intercessione di santi e madonne. Il delinquente calabrese, però, voleva provarci lo stesso. Ma accettava nel suo tempio solo i migliori, i più affidabili, miracolisti infallibili. Poteva mai mancare, dunque, il brand più forte della Chiesa italiana, il cavallo di razza dei santi, lo sfornamiracoli per antonomasia, San Pio da Pietrelcina? Eh, no. Perciò eccolo qui sul podio, al centro del giardino adibito a tempio, circondato da due aiuole fiorite. Non aveva nemmeno bisogno del solito deodorante segnala-miracoli. I fiori facevano bene il loro mestiere e il boss si augurava che, a forza di prostrarsi, sarebbe riuscito a strappare al santo una piccola grazia.
Padre Pio, Padre Pio, avrei voluto ignorarlo ma me lo trovavo in ogni dove. In Chiesa, ci stava. Quando smisi di frequentarla, però, pensavo che non l'avrei più visto. Che si sarebbe dimenticato di me. Che lui, le sue stimmate, il suo olezzo, i suoi miracoli e la sua storia mi avrebbero lasciato in pace. E invece no. Me lo ritrovo sempre tra i piedi. Sbuca da un ex voto, in un vicolo, sul vetro di un auto, allo stadio, nella casetta della posta, sui calendari appesi ai muri delle persone anziane.
Mia nonna ci aveva regalato una sua statuetta fluorescente. Mia madre l'aveva riposta in un angolo nascosto della mia libreria. Al buio diventava verde e, una volta, aprendo l'anta centrale del mobile, trasecolai e caccia un urlo. Qualche giorno dopo, nottetempo, mi armai di coraggio, riaprii lo sportello della libreria e mi infilai la statuetta sotto la giacca. Sgattaiolai fuori di casa furtivamente e, dopo essermi assicurata che non vi fosse nessuno in giro, lanciai Padre Pio nel bidone dell'immondizia. Lo vidi annaspare tra una buccia di banana e un assorbente Lines Seta Notte. Avevo ottenuto la mia rivincita. Credevo di essermi definitivamente liberata di lui. Ma, da qualche tempo, ho compreso che è praticamente impossibile.
Dovunque io vada me lo ritrovo tra i piedi. Anche nei luoghi di culto che non sono di sua pertinenza. Oramai manca solo che lo pubblicizzino in televisione, tipo il "Prez" il rosario elettronico che, puta caso- rarissimo caso, pressoché impossibile, diciamo pure irrealizzabile visto che l'Ave Maria non conosce confini si sente anche sottoterra e in alta montagna dove gli stambecchi cantano l'Alleluia- Radio Maria non prenda, ti aiuta a non saltare le corone. Padre Pio è una persecuzione. Mi osserva, mi tiene d'occhio e mi ricorda con la sua presenza ossessiva che esiste, è nella mia vita, è imprescindibile, pur volendo non posso liberarmene. E'come Carlo Conti e Antonella Cleici messi insieme, i sorrisi stereotipati dei bambini dell'Antoniano a novembre e il cinepanettone con la velina a dicembre. Il gioco dei pacchi alle 8. Yara, Meredith e Sarah Scazzi. Padre Pio è come Brook di "Biutiful"; le altre muoiono e a volte resuscitano. Ma lei no. Lei rimane. Perché, parafrasando Megan Gale (una che al contrario dei tormentoni ever green è sparita subito, dopo aver occupato a lungo i nostri teleschermi con le sue imprese da Wonder Woman)in uno spot della Omnitel, "Tutto ruota intorno a lei". E, anche per la Chiesa, visti i fatturati, tutto ruota intorno al... Mc Donald di San Giovanni Rotondo!