giovedì 31 maggio 2012

Le notti bianche

A volte mi chiedo se valga davvero la pena essere giovani quando non si può vivere la giovinezza appieno. Voglio dire, i tempi sono quelli che sono e crearsi una stabilità economica, trovare lavoro e riuscire a tenersi stretto il lavoro che si ha, è sempre più complicato. In fondo non viviamo mai come vorremmo al 100%. E'una guerra. E spesso le condizioni di vita precaria si ripercuotono sulla nostra psiche che cercano invano una compensazione. Ogni giorno quando mi sveglio e comincio una nuova giornata mi pongo sempre lo stesso interrogativo: ci sarà una via d'uscita? Ogni labirinto, anche quello più intricato, ha un'uscita. "Arriverà-passerà-deve uscire la strada" mi ripete mia nonna con il suo fatalismo. E intanto siamo quasi a giugno e la legna arde ancora nel camino. Non credo più ai miracoli di nessuno. Possiamo anche dire che non credo proprio più a nessuno. Ma non voglio che questo stato di cose rovini quel poco di buono che ho costruito. Dunque direi che sarebbe opportuno trovare il bandolo della matassa, reperire una soluzione che dia di nuovo colore alle mie giornate e non mi faccia sentire un'inutile intellettualoide venditrice di parole. Forse è vero aveva ragione il mio professore di italiano quando diceva che se fosse tornato indietro non avrebbe studiato, avrebbe fatto il gitano. Gli avessi dato ascolto. Il suo nove in pagella me lo sono sudato, a pensarci adesso mi sento davvero stupida. Rivedo la ragazzina che leggeva i romanzi sotto al banco mentre lui spiegava, avida di conoscenza e recalcitrante ai suoi metodi severi. Dante, Petrarca e San Francesco da mandare a memoria. Ci assegnava tesine, parafrasi e ogni sorta di esercizio pur di impartirci la lezione dei classici. Io di notte facevo l'amanuense. Aspettavo che mio fratello si addormentasse e si girasse dall'altro lato, e accendevo la mia lampada da studio per iniziare la trascrizione. Quanto ho studiato al liceo. Ma ero felice di andare a scuola. Mi piacevano la mia scuola, il mio corso, i miei professori e i miei compagni. E, spesso, rimpiango i tempi del liceo e di zio Lello quando tutti erano convinti che studiare aveva un senso. Quando mi disperavo perché sui miei compiti di storia e filosofia non c'era neanche un segno rosso, neanche un errore. Quando sognavo la Roma di Pierpaolo Pasolini e il Corriere di Montanelli. Chissà dov'è la ventenne che si esaltava con la Critica della Ragion Pura e provava a capire testi scritti in tedesco. Ogni tanto il mio fantasma di materializza. Me lo vedo accanto durante i colloqui di lavoro, nelle agenzie interinali. Guarda i vari addetti, consulenti, reclutatori, responsabili delle risorse umane che brandisco curricula come materiale pubblicitario, cerchiano il voto di laurea, storcono il naso scorrendo le esperienze lavorative e contriti asseriscono che ormai le specializzazioni non servono quasi più a nulla. Che la nostra preparazione è più un ostacolo, un problema che un vantaggio. La ragazzina si copre le orecchie con le mani, va a rifugiarsi in un angolo, tira fuori dalla borsa un tomone di Dostoevskij e prende a leggere tremante. Invoca i nomi dei suoi insegnanti. Dei suoi numi tutelari, intellettuali. Prova a tendermi una mano, mi fa cenno di non credere a quanto dicono. Fruga nella sua borsa, ricolma di libri, e come un coniglio da dentro un cilindro, tira fuori "Le notti bianche". Vorrebbe spronarmi a non cedere, consolarmi. Ma mi invita a ricordare il manifesto del disincanto: non è più tempo per i sognatori. "Forse un raggio di sole, spuntato improvvisamente da dietro le nubi, si era nascosto per un momento sotto una nuvola gonfia di pioggia e tutto si era offuscato ai miei occhi? O forse era balenata dinanzi a me, triste e desolata, la prospettiva del mio avvenire? Fatto si è che io mi vidi come sono adesso, esattamente quindici anni dopo, invecchiato nella medesima stanza, sempre nella medesima solitudine, con quella stessa Matrëna che in tutti quegli anni non è certo diventata più intelligente..."(Da Le notti bianche). Eppure sono sicura che da qualche parte è nascosta la ricetta della rinascita. Il rituale di affiliazione al clan del Sole deve esserci. Lo scoveremo, caro il mio fantasma, così che tu possa smettere di nasconderti ed uscire finalmente allo scoperto.

mercoledì 23 maggio 2012

La mafia è una montagna di merda

Nel ventennale della strage di Capaci in una trasmissione radiofonica si interrogavano su come le stragi del ‘92 avessero cambiato la nostra vita. Si alternavano racconti di ascoltatori che, pur non essendo del posto, non avendo alcuna conoscenza della mafia, hanno vissuto intensamente quei giorni tanto da cambiare lavoro, impegnarsi per la legalità, pretendere un paese diverso in cui i giudici non saltassero in aria insieme con la propria scorta solo per aver fatto al meglio il proprio dovere. Tutti ricordavano alla perfezione dove si trovavano in quegli istanti. Io Capaci proprio non me la ricordo. L’unica immagine che serbo nella mente del maggio 92’è il volto di Rosaria Schifani. La voce rotta dal pianto di una vedova bambina che dall’altare di una chiesa del Sud chiede ai mafiosi di cambiare e poi, rassegnata, si lagna: “Ma loro non cambiano”. Di Via D’Amelio invece ho un ricordo nitido. Tornavamo dal mare. Mio padre aveva la radio accesa e parlavano dell’attentato. Non appena la macchina si fermò, mi precipitai in casa e accesi la tv. Davanti a me vidi delle immagini terribili. Corpi a terra coperti da bianche lenzuola, carcasse di macchine divelte, asfalto sollevato e il volto accigliato di Borsellino. Guardavo ma non capivo. Mi chiedevo se l’autore di quel massacro fosse un omologo di Tano Cariddi, il mafioso della Piovra. Per me la mafia erano loro. Don Vito Corleone, Tano. Avevo sentito parlare di Riina, di Provenzano, di Michele Greco e Buscetta. Eppure non ero riuscita a memorizzare i loro volti. Ma una cosa era certa: i giudici erano il bene, i mafiosi il male e non si sa per quale arcano motivo, a differenza di quanto accadesse nei cartoni, a vincere erano sempre i secondi. Gli stessi signori con la coppola e la lupara che rapivano i bambini, li nascondevano suoi monti, nei cuniculi o li scioglievano nell’acido. Ero terrorizzata dai discorsi dei giornalisti televisivi, pur essendo una bambina avida di cronaca nera, delitti irrisolti e film di Hitchcock, percepivo che c’era qualcosa di più terribile e temibile nella mafia, ma non capivo cosa. Non posso dire, tuttavia, che quell’evento mi abbia cambiato la vita. Prima di allora guardavo già con interesse Santoro, Mixer e i programmi di Zavoli. A nove, dieci anni, non potevo intendere tutto alla perfezione anche perché non avevo un’esperienza diretta di fatti del genere. Io ero una bambina lucana, non avevo mai assistito ad una sparatoria, visto morti a terra o temuto che qualche omaccione chiedesse il pizzo ai miei parenti, nemmeno sapevo cosa fosse un’estorsione. Sapevo che la mafia esisteva, mi affascinava, volevo capirla ma non mi spaventava più di tanto, o perlomeno non quanto i terremoti. Perché pensavo che la mia terra fosse immune dal fenomeno mafioso. Il 22 aprile del 1999, quando il mio paese è stato invaso dalle forze dell’ordine e sono stata svegliata dal frastuono degli elicotteri, ho capito di essermi sbagliata. Solo dopo aver letto “Gomorra”, però, mi sono persuasa che era necessario attivarsi affinché il sacrificio dei buoni non venisse vanificato. “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani avrà un inizio e una fine”, diceva Falcone, ottimista. Vorrei tanto potergli dare ragione. Ma a venti anni dalla morte dei giudici simbolo della lotta antimafia, mi sembra che l’ascesa della criminalità organizzata sia inarrestabile, a causa soprattutto di una cultura mafiosa, ben radicata nel nostro paese e difficile da debellare.

mercoledì 9 maggio 2012

La vera rivoluzione è il fai da te

Non ho mai creduto nelle agenzie di lavoro interinale. Già il fatto che guadagnino sul tuo lavoro e si prendano una percentuale per avertene trovato uno mi irrita. Come se gli stipendi, ops pardon “la paga”, magari a cottimo, fosse alta. L’ennesimo latrocinio. Oltre ai padroni del mondo, agli oligarchi, ai tiranni delle vite altrui, bisogna tollerare altri truffatori che si ammantano di santità e si mascherano da benefattori. Ho sempre pensato di poterne farne a meno, ma a quanto pare la mia era una pretesa bella e buona. Se cerchi lavoro prima o poi ti imbatti in loro, specie dove il mercato del lavoro è molto limitato, le offerte sono poche e gli squali sono pronti a sbranarti. In Basilicata se ti rifiuti di metterti in fila davanti alla porta del sindaco o del vicesindaco con le mani in pasta, se non vuoi abbassare la testa dinanzi ai feudatari di centrosinistra grotteschi sultani di questa terra, se decidi di non barattare la tua dignità di uomo libero con un voto, prima o poi finisci alla Man power. Sembra sia la prassi. E ti tocca rispondere ad asettici quesiti posti da un operatore che non vede l’ora di infilarti in un data base, catalogarti e tramutarti in un oggetto di guadagno. E’uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. C’è sempre un qualcuno sopra di noi che, come direbbe Troisi, “ci mang da ‘ncopp”. Siamo numeri, qualifiche, titoli di studio, brevi esperienze lavorative da riassumere in poche frasi. Record. File. Semplici flatus vocis che possano accontentare le richieste di una macchina, strumento attraverso il quale verremmo reclutati, contrattualizzati per un breve periodo e poi buttati nel cestino con il nostro strabiliante curriculum. E mi domando: a cosa serve? E’questo il modo di valorizzare i talenti di chi ti sta di fronte? E’questo il modo di inserire i giovani nel mondo del lavoro? Ho capito che c’è la crisi e abbiamo fame, ma fateci lavorare e fateci lavorare bene. Permetterci di esprimerci al meglio. E’vietato anche questo nella Repubblica fondata sul lavoro? Non ci è consentito neanche di spiegare quali sono le nostre reali aspirazioni, le nostre frustrazioni e i nostri bisogni primari? E’un lusso avere dei sogni e volerli realizzare lavorando? Beh, allora ditelo subito, non ci fate tribolare e noi troveremo un modo per porre rimedio. La fila davanti ad un qualsivoglia ufficio di generosi elargitori di beni primari è sempre un’esperienza formativa. Soprattutto perché è raro imbattersi in una storia positiva. Alle 10 del mattino, ieri, sulle scale della Manpower eravamo in tre. Io, una giovane fanciulla indigena e una donna che aveva tutta l’aria di provenire dall’est. Ormai ho sviluppato un certo sesto senso. Riesco a riconoscere la tipologia di lavoratore dall’abbigliamento e dal comportamento. La signora era conciata in maniera bizzarra, un po’troppo estiva, sandali beige sotto un paio di jeans attillati acquistati sulle bancarelle dei cinesi, giubbetto di jeans della stessa fattura e provenienza dei pantaloni, borsa invernale dai colori scuri. Piedi e mani erano in ordine, laccati e curati, mentre una chioma crespa nero corvino ricadeva sulle spalle leggermente curve. Non c’era bisogno che parlasse per capire da dove veniva e che genere di impiego cercava. La donna finora aveva lavorato come badante ed era la prima volta che visitava la sede di un’agenzia di lavoro interinale. Pertanto non aveva idea di come funzionasse e l’operatore, un omino in maglioncino chiaro e jeans scuri dall’accento toscano, l’ha invitata a ritornare, dopo averle consegnato una fotocopia sulla quale c’era scritto cosa dovesse fare prima di recarsi in filiale. Ovvero caricare il proprio curriculum online, sperando che il portale decidesse di accettarlo, e poi tornare a fare visita ai cercatori di pepite d’oro, per verificare se la procedura fosse andata a buon fine. In bocca a lupo. Ascoltavo con attenzione le raccomandazioni dell’omino operatore mentre la ragazza indigena che stringeva tra le mani la busta di una griffe da centro commerciale (“Artigli”, il genere di abiti che mia nonna chiamerebbe “sciupp”: insomma robetta usa e getta) mi osservava. Avevo capito che lei non era una che se ne stava con le mani in mano. Abbigliamento sportivo, scarpette firmate, borsetta in tinta ben abbinata, la fanciulla non doveva aver perso il lavoro da poco. Era in cerca di un nuovo impiego, magari migliore di quello precedente. Ma la sua storia l’avrei appresa di lì a poco, quando l’omino ci ha gentilmente spedito nella sala di attesa dell’agenzia, la tromba delle scale. L’ufficio non è affatto accogliente e gli operatori ci tengono alla privacy dei futuri lavoratori. Quando sono arrivata, insieme con le mie compagne di sventura, all’interno c’erano già quattro persone, una coppia, presumo di fidanzati, che chiacchierava col burocrate toscano, e due ragazzi molto giovani, muniti di curriculum che attendavano di poter essere archiviati nella macchina infernale. La coppia è stata liquidata subito. I ragazzi sono stati accolti dall'operatore, mentre noi prendevamo posto fuori. Oramai tra me e la fanciulla Artigli c’era complicità. Una naturale empatia che viene a crearsi tra sguardi disorientati e preoccupati. Le ho sorriso e mi sono accomodata sui gradini di marmo rosso. Che in comunicazione non scritta equivale a: "prego, sono pronta ad ascoltare la tua storia". “Secondo te c’è da aspettare molto?”, ha esordito la fanciulla spaesata. Ed io:”Non so è la prima volta che vengo”. Lei era una veterana, ma doveva solo aggiornare il curriculum con le nuove esperienze lavorative. Per indurla a narrarmi le sue vicende ho manifestato subito le mie perplessità in merito all’utilità delle agenzie di lavoro interinale. La tecnica del dubbio metodico funziona sempre. “Io mi ci sono iscritta ancor prima di laurearmi, ma non mi hanno mai chiamato. Forse perché non avevo la laurea, non lo so. Ma poi ho fatto altro, ho trovato lavoro…E non me ne sono più occupata”. O meglio è tornata per aggiornare il cv che l’agenzia non aveva certo contribuito a riempire. Perché il lavoro, miss Artigli, se l’è comprato tramite un master in progettazione territoriale. Una sorta di marketing territoriale, se non ho capito male, che avrebbe dovuto spendere in Basilicata. Terra a vocazione turistica. Basilicata cost to cost. Luogo in cui gli amministratori si scervellano a tal punto per accogliere nuovi visitatori e incentivare il turismo che mancano le infrastrutture. Una per tutte: la ferrovia a Matera. L’aeroporto poi è un’utopia, quindi non vale la pena citarlo. Ma il vero volano della nostra economia, udite udite, è il turismo. Quindi, se è così, la brillante masterizzata avrebbe dovuto trovare occupazione... Ops, pardon!, che sbadata... Avrebbe dovuto essere sfruttata in maniera legale senza vedere il becco di un quattrino(stage)in un ufficio comunale, alla regione, all’Apt, non so nei luoghi deputati a questo genere di cose. Invece no. La studentessa viene parcheggiata in un’agenzia di comunicazione. “Beh io comunque conoscevo i programmi di grafica e quindi ho lavorato in quel settore. Diciamo il mio progetto non è andato a termine, ma avevo un lavoro e mi sono adattata”. Lo spirito di adattamento di questi tempi è fondamentale. Ma a volte se ne abusa. “Poi, però, ho cambiato ruolo dala grafica sono passata all’amministrazione perché è venuta a mancare una figura”. E che fai in tempi di magra rifiuti il lavoro? Ti impunti perché hai delle competenze e ti fanno fare altro? No, siamo flessibili, bisogna essere umili, l’ha detto anche l’ex ministro, la Fornero poi dice che noi al Sud vogliamo solo andare al Grande Fratello o a morire ammazzati in guerra per due spiccioli. Meglio abbozzare e tacere. E la ragazza laureata-masterizzata-grafica si è adattata a fare la segretaria. Benché pagata. Anche se continuava ad avere un contratto di apprendistato, stage. “Quando poi però ho visto che i soldi arrivavano e non arrivavano, molti mesi lo stipendio saltava, il contratto non veniva mai rispettato e io ci rimettevo anche di tasca mia perché mettevo a disposizione la mia auto per l’azienda…Beh dopo un po’non ce l’ho fatta più e non ho terminato i sei mesi di ‘stage’”. Ha messo fine alla prigionia. Viva dio. Dopo aver sostenuto il mio brevissimo colloquio con l’omino toscano, esperto della fame nel mondo del giornalismo e di tecniche di sfruttamento a collaborazione, ho fatto alla masterizzata Artigli il mio “in bocca a lupo”, ma avrei voluto consegnarle un fucile a pompa ed istigarla alla rivoluzione piuttosto. Perché, se non ci diamo da fare noi, al peggio non ci sarà mai fine. Meglio inventarselo un lavoro che farsi sfruttare. Gli altri, chiunque essi siano, e qualunque cosa abbiano fatto prima, sanno solo mangiare sulle nostre spalle. Mors tua vita mea. E allora costruiamocelo noi l’avvenire, senza aspettarci nulla da nessuno.