mercoledì 23 maggio 2012

La mafia è una montagna di merda

Nel ventennale della strage di Capaci in una trasmissione radiofonica si interrogavano su come le stragi del ‘92 avessero cambiato la nostra vita. Si alternavano racconti di ascoltatori che, pur non essendo del posto, non avendo alcuna conoscenza della mafia, hanno vissuto intensamente quei giorni tanto da cambiare lavoro, impegnarsi per la legalità, pretendere un paese diverso in cui i giudici non saltassero in aria insieme con la propria scorta solo per aver fatto al meglio il proprio dovere. Tutti ricordavano alla perfezione dove si trovavano in quegli istanti. Io Capaci proprio non me la ricordo. L’unica immagine che serbo nella mente del maggio 92’è il volto di Rosaria Schifani. La voce rotta dal pianto di una vedova bambina che dall’altare di una chiesa del Sud chiede ai mafiosi di cambiare e poi, rassegnata, si lagna: “Ma loro non cambiano”. Di Via D’Amelio invece ho un ricordo nitido. Tornavamo dal mare. Mio padre aveva la radio accesa e parlavano dell’attentato. Non appena la macchina si fermò, mi precipitai in casa e accesi la tv. Davanti a me vidi delle immagini terribili. Corpi a terra coperti da bianche lenzuola, carcasse di macchine divelte, asfalto sollevato e il volto accigliato di Borsellino. Guardavo ma non capivo. Mi chiedevo se l’autore di quel massacro fosse un omologo di Tano Cariddi, il mafioso della Piovra. Per me la mafia erano loro. Don Vito Corleone, Tano. Avevo sentito parlare di Riina, di Provenzano, di Michele Greco e Buscetta. Eppure non ero riuscita a memorizzare i loro volti. Ma una cosa era certa: i giudici erano il bene, i mafiosi il male e non si sa per quale arcano motivo, a differenza di quanto accadesse nei cartoni, a vincere erano sempre i secondi. Gli stessi signori con la coppola e la lupara che rapivano i bambini, li nascondevano suoi monti, nei cuniculi o li scioglievano nell’acido. Ero terrorizzata dai discorsi dei giornalisti televisivi, pur essendo una bambina avida di cronaca nera, delitti irrisolti e film di Hitchcock, percepivo che c’era qualcosa di più terribile e temibile nella mafia, ma non capivo cosa. Non posso dire, tuttavia, che quell’evento mi abbia cambiato la vita. Prima di allora guardavo già con interesse Santoro, Mixer e i programmi di Zavoli. A nove, dieci anni, non potevo intendere tutto alla perfezione anche perché non avevo un’esperienza diretta di fatti del genere. Io ero una bambina lucana, non avevo mai assistito ad una sparatoria, visto morti a terra o temuto che qualche omaccione chiedesse il pizzo ai miei parenti, nemmeno sapevo cosa fosse un’estorsione. Sapevo che la mafia esisteva, mi affascinava, volevo capirla ma non mi spaventava più di tanto, o perlomeno non quanto i terremoti. Perché pensavo che la mia terra fosse immune dal fenomeno mafioso. Il 22 aprile del 1999, quando il mio paese è stato invaso dalle forze dell’ordine e sono stata svegliata dal frastuono degli elicotteri, ho capito di essermi sbagliata. Solo dopo aver letto “Gomorra”, però, mi sono persuasa che era necessario attivarsi affinché il sacrificio dei buoni non venisse vanificato. “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani avrà un inizio e una fine”, diceva Falcone, ottimista. Vorrei tanto potergli dare ragione. Ma a venti anni dalla morte dei giudici simbolo della lotta antimafia, mi sembra che l’ascesa della criminalità organizzata sia inarrestabile, a causa soprattutto di una cultura mafiosa, ben radicata nel nostro paese e difficile da debellare.

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